Immaginatevi un bosco, una ragazzina adolescente, una nonnina che le racconta fiabe e che le raccomanda di non perdere mai il sentiero. Immaginate una mantella rossa che ricopre le spalle della giovane, un lupo – più lupi – che vaga per il bosco e riportate la memoria alle prime limpide fiabe dell’infanzia. Certo penserete a Cappuccetto rosso, non v’è dubbio alcuno. O forse no. Il dubbio può sorgere, c’è anche la possibilità che avete letto Angela Carter e il suo The bloody Chamber and Other Stories (La camera di sangue), in cui la nonnina in questione racconta fiabe nere, nelle quali i lupi divorano sul serio, rubano l’anima agli esseri umani e ne prendono le fattezze, si fanno angoscia e turbamento interiore, trasfigurano la realtà per incarnarsi in simbolo, allegoria e metafora della violenza maschile. Oppure pensate al film di Neil Jordan, In compagnia dei lupi, che proprio al romanzo – ad uno dei racconti ivi contenuti: The Company of Wolves – della Carter si ispira. Angela Carter, femminista dichiarata, fornisce a Jordan la possibilità per un viaggio suggestivo all’interno delle paure infantili e primordiali. Il lupo diventa simbolo, dunque, immagine di un terrore ancestrale, elemento fondamentale per comprendere la natura duale maschile. Una pellicola in cui il regista irlandese è riuscito a trasformare in immagini un racconto pieno zeppo di implicazioni pedagogiche e psicanalitiche.
Si parte dal sogno, e non potrebbe essere diversamente. Rosalen è una ragazzina adolescente alla quale piace rifugiarsi nella propria stanza. Nella stanza, colma di pupazzi abnormi, Rosalen dorme col rossetto sulle labbra e non ascolta la sorella che da fuori gliene dice di tutti i colori. Dorme. Dorme e sogna. Siamo in un bosco, in un’atmosfera da fiaba. Da fiaba gotica che si fa subito incubo: la sorella di Rosalen muore sbranata dai lupi. I genitori restano avvolti nel loro dolore e per un po’ la ragazzina va a vivere dalla nonna. Siamo sempre nel sogno, ricordatelo bene, e non ne usciremo che nell’ultima sequenza della pellicola. Pardon, mi correggo, forse siamo nell’incubo. Ma no, forse no. E mi correggo ancora. Siamo in una fiaba, territorio difficile da inquadrare nelle categorie assolute di sogno e incubo. Diciamo – ah ecco, mi è venuta giusta – che siamo nel mondo onirico. E nel mondo onirico succede di tutto, come saprete. Sapete che tutto è trasfigurato, che il tempo è una dimensione irrilevante, che passato presente e futuro si sovrappongono, che ogni immagine è un simbolo, un’evocazione, l’inizio di una nuova fiaba, di un nuovo sogno o di un nuovo incubo. Proprio come avviene nel caso in questione. Rosalen sogna, è nel mondo onirico, parla con la nonnina che a sua volta racconta fiabe. Siamo ancora in nuovo mondo, in una terza dimensione, che a volte torna alla seconda lasciando Rosalen, nella prima dimensione, sempre immersa nel sogno-incubo. Scatole cinesi? Scatole cinesi, sì, ma c’è un perché. Ecco il lupo, ma non è un lupo normale: è un licantropo, è un essere umano che ha subito una mutazione. È ingannevole, come la natura umana. È feroce, mortale. Eppure anche le ragazzine non sono poi cosi ingenue, vagano sole per i boschi pur conoscendo il rischio. A volte restano perfino affascinate dal lato oscuro. È il caso di Rosalen, che trova amore e unione carnale, il cui mantello rosso si trasforma in un simbolo dell’iniziazione sessuale, della scoperta del sé intimo, profondo: dell’eros. Ma tornare alla prima dimensione, al risveglio dal sogno-incubo primordiale, non sempre ci salva dall’orrore trasfigurato dal mondo onirico. Qui l’orrore diventa reale: può uccidere davvero.
Secondo lungometraggio dell’allora semi sconosciuto Neil Jordan, oggi regista di culto per pellicole dall’alto valore artistico, conferma le buone impressioni ricavate dalla visione di Angel (1982), sua opera prima. Il regista irlandese, sempre a suo agio nelle incursioni letterarie (Intervista col vampiro, The butcher boy, Breakfast on pluto e altre ancora), sceglie un’autrice più complessa di quel che potreste immaginare, visto il genere. Complessa sopratutto da tradurre dinamicamente in immagini, vista la miriade di significati e tematiche che evocano i suoi testi, questo in particolare. Ne esce fuori un film altamente letterario, a tratti compassato, che proprio della dinamica sembra disinteressarsi. Un’opera quasi filosofica, pedagogica e psicanalitica, in cui ogni dettaglio ha il suo importante valore simbolico e narrativo. Tutto ciò può anche aver allontanato gli spettatori di grana grossa, ma può certo aver attirato un pubblico che solitamente rifugge il genere sia orrorifico che fiabesco. È una fiaba gotica, come detto, che se proprio vogliamo classificare potremmo etichettare horror solo perché nei primi anni ottanta la licantropia aveva fatto il suo ingresso trionfale nel mondo della settima arte (ricordiamo i successi di Joe Dante con L’ululato e di John Landis con Un lupo mannaro americano a Londra).
Il lavoro letterario che compie la Carter è importante, perché a differenza di ciò che in un primo momento si potrebbe pensare non svaluta certo la fiaba classica ma al contrario le restituisce nuova linfa, rielaborandola a livello intertestuale per proporre chiavi di lettura in linea con il tempo che ci ospita. Ecco che erotismo e psicanalisi non solo fanno capolino, ma diventano tema principale del testo sul testo, cosi da regalare suggestioni formative per una lettura adulta che incontri il gusto degli adulti stessi e dei ragazzini più precoci. Jordan ben lo comprende e affida il ruolo principale ad una ragazzina di tredici anni, Sarah Patterson, che riesce – senza scandalizzar nessuno – a risultare sensuale e soprattutto credibile.
Il film si avvale di una scenografia notevole, di effetti visivi, per l’epoca, efficaci (la trasformazione dell’uomo in lupo quasi ricorda quella dell’Alien di Ridley Scott), di un impianto narrativo solido (la Carter partecipò alla stesura della sceneggiatura) e di attori sufficientemente in parte. È divenuto, nel tempo, un piccolo cult movie, ma c’è ancora una parte della critica che taccia l’opera di intellettualismo, di narcisismo e di boiate di questo tipo. Eppure, se ci si sforzasse di guardare il film con un po’ di amore per la letteratura invece che far processi a ciò che spesso si rifiuta per partito preso, ci si accorgerebbe che In compagnia dei Lupi è uno di quei rari esempi in cui il regista cerca di dar lustro all’opera proprio nel suo elemento letterario. E che Jordan ami la letteratura lo dimostra la sua filmografia, come anche su accennato, lo dimostra il suo affidarsi, in sede di sceneggiatura, ai veri autori (i padri e le madri naturali dell’opera trasposta), invece di far disastri di riscrittura totale come è capitato anche a qualche famoso regista in delirio d’egolatria creativa. Il rispetto e l’amore che Jordan porta per la letteratura è già di per sé un elemento qualitativo a priori: quando andiamo a vedere un’opera del regista irlandese siamo certi di non trovare i testi ispiratori massacrati. Non è cosa da poco.
L’ultima nota, in questo viaggio filmico tutto letterario, è evidentemente per la Carter, la cui scrittura regala le emozioni dei grandi narratori di genere. Richiama, non nella forma ma nelle suggestioni, l’opera più matura e complessa, anche buia e angosciante di narratori come Andersen e dell’ Ende di Lo specchio nello specchio. Pertanto, nel consigliarvi il film, vi invito anche alla lettura dell’opera della Carter, che è sempre cosa buona e giusta.
Curiosità: Appare in un piccolo cammeo non accreditato Terence Stamp, al contrario dell’Angelo di pasoliniana memoria (pur dagli effetti devastanti, in Teorema), nei panni addirittura del demonio. Incarnatosi in forma maschile, naturalmente.
Federico Magi, giugno 2007.
Edizione esaminata e brevi note
Regia: Neil Jordan. Soggetto: tratto dal libro di racconti “La camera di sangue”, di Angela Carter. Sceneggiatura: Neil Jordan, Angela Carter. Direttore della fotografia: Bryan Loftus. Montaggio: Rodney Holland. Interpreti principali: Sarah Patterson, Angela Lansbury, David Warner, Tusse Silberg, Micha Bergese, Brian Glover, Graham Crowden, Kathryn Pogson, Stephen Rea, Georgia Slowe. Scenografia: Anton Furst. Costumi: Elizabeth Waller. Musica originale: Gorge Fenton. Titolo originale: “The Company of Wolves” Origine: Gran Bretagna, 1984. Durata: 95 minuti.
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