“Altro che fantasia al potere. Una barzelletta, lo ammetto. Ma l’essenza di quei primi anni Ottanta a Roma era lo sfrenato, disperato, bisogno di comunicare chi e cosa eravamo. Come se la violenza del passato decennio avesse lasciato una ferita indelebile. Volevamo parlare, urlare. Dovevamo farlo per toglierci di dosso delle ignobili e superficiali etichette imposteci da chi, negli anni precedenti, aveva colorato di rosso le strade della nostra città. A chi aveva creato mostri, relegandoci al di fuori di ogni consesso. Sentivamo che, a ben vedere, potevamo ancora donare sogni, imperativi e obiettivi alla nostra Comunità nazionale. Anche se solo con i manifesti. Perché questo avevamo: manifesti e colla per affiggerli, qualche strada e qualche piazza per farli leggere. Pochissime scuole agibili. Nessuna radio, né televisione. Quasi nessun giornale o rivista scientifica. Quasi nessun docente, scrittore, compositore o poeta. Pochissimi laureati, pochissimi professionisti. Praticamente nulla. E siccome ‘la vita o si vive o si scrive’ – come diceva un Siciliano – a noi altri non restava che viverla” (p.173)
Non era affatto facile, come ben descritto in questo inequivocabile stralcio dall’autore, scegliere di stare a destra, nel Movimento Sociale Italiano, e nella sua organizzazione giovanile, il Fronte della Gioventù, negli anni del riflusso. In fondo essere fascisti, nel dopoguerra, non era stato facile nemmeno per le generazioni precedenti, ma gli anni Ottanta sono stati davvero un periodo complicato per i ragazzi che si affacciavano alla militanza nell’aria politica più avversata e ostracizzata, vilipesa e dileggiata, esclusa da qualsiasi processo decisionale, culturale, politico, sociale e intellettuale. Gli anni di piombo erano ancora lì, alla distanza di un passo o poco più, l’attentato alla stazione di Bologna un marchio di infamia che gravava ingiustamente su tutto un ambiente politico, e i camerati morti non erano ancora terminati, come dimostrò la triste sorte che toccò all’ultimo giovanissimo militante, Paolo Di Nella, finito nella spirale d’odio di una violenza politica davvero dura a morire, a certe latitudini. Giuseppe Iellamo, cinquantenne avvocato penalista ed ex militante e dirigente del Fronte della Gioventù, ci racconta proprio quegli anni, vissuti in prima persona attraverso esperienze ora goliardiche e ora drammatiche, con una punta di nostalgia e toni sovente scanzonati, anche quando si trova rievocare momenti difficili (e ce ne furono parecchi); tradendo anche un vago retrogusto romantico che, a dispetto di chi non ha mai conosciuto da vicino quest’ambiente, considerato scarsamente acculturato e dedito soprattutto a menar le mani, del titanismo degli eroi del romanticismo si è nutrito in dosi abbondanti nei pomeriggi trascorsi in seminterrati bui e umidi, a volte veri e propri scantinati, che al tempo erano le (nostre) sezioni.
Di notte, questo il titolo dell’opera, non si esaurisce – ancorché li renda centrali, nell’economia della narrazione – nel racconto degli anni Ottanta, ma analizza un periodo storico che va, come esplicita il sottotitolo, dalla fine degli anni Settanta all’alba del Terzo millennio. Il contesto ambientale che Iellamo ci presenta, nelle sue oltre 200 pagine di narrazione, è quello missino raccolto nelle sezioni a Nord del Tevere, quello nel quale entrò da studente liceale, proprio al culmine degli Anni di Piombo. Le sezioni Aurelio, Balduina e successivamente, negli anni Novanta Vigna Clara (a cui si aggiunse anche Trastevere), sono quelle che hanno dato vita al Coordinamento Roma Nord, di cui Giuseppe fu anche coordinatore. Centrale è il quartiere Aurelio, attraverso il quale passano la maggior parte delle rievocazioni dell’autore, che ci racconta aneddoti ed esperienze di vita militante e comunitaria: comunità e militanza, due termini inscindibili per chi non solo ha scelto di far politica nel partito più scomodo che ci potesse essere allora, ma anche di far parte della così detta ala rautiana (la sinistra missina, per i neofiti); in poche parole la corrente minoritaria, se così la vogliamo definire, all’interno del M.S.I allora capeggiato dal segretario Giorgio Almirante. Ma da questa parte del Tevere c’erano anche Montespaccato e Primavalle, periferia Nord nella quale si consumò il tragico evento del rogo in cui persero la vita i giovanissimi fratelli Mattei, e la “non integrata” sezione Ottaviano. L’autore rievoca quel tempo attraverso ricordi e digressioni, vissute certo in prima persona ma con l’ausilio di brevi racconti di alcuni suoi compagni di viaggio: Marina, Moncicì, Marco, Annamaria, Fabio, Tato e qualcun altro lo dimentico sicuramente. Gli intervalli delle loro rievocazioni danno un senso più compiuto all’opera e aiutano a comprendere non tanto e non solo i sottili equilibri politici del tempo andato, quanto più la difficoltà di vivere non esclusivamente la militanza ma la vita di tutti giorni, una volta che il mondo circostante ti ha inquadrato come fascista, come camerata.
Alcune testimonianze sono davvero emblematiche e toccanti, come quella di Moncicì, esemplificative e chiarificatrici, come quella di Marina, o lucide e disincantate, come quella di Marco. Giuseppe Iellamo fa sì un racconto intimo e personale, ma attraverso il suo coro di voci e testimonianze universalizza la visione di un mondo, da qualche anno certo più studiato e analizzato anche da una saggistica mainstream a larga diffusione, che proprio per la sua estraneità alla cultura dominante nell’Italia del dopoguerra è ancora lontano dall’esser stato compreso fino in fondo. Laddove questa analisi non è condotta solo attraverso la metodica del saggio, ma attraverso l’esperienza autobiografica e il racconto di formazione, come nel caso in questione, anche chi è lontano anni luce da questo mondo e queste esperienze può sicuramente avvicinarsi a comprendere chi erano questi ragazzi e cosa poteva significare far politica a destra in quegli anni, fino a trovare anche tracce di sé. Per quanto si possa rivendicare una certa orgogliosa diversità, e Giuseppe Iellamo lo fa a più riprese – non proprio a torto, sia ben chiaro – nel corso della narrazione, Di Notte è in fondo un’elegia della giovinezza, del massimalismo e del radicalismo che si può avere solo a vent’anni, della forza propulsiva e dell’intima disposizione a cambiare le sorti del mondo – anche se questo “mondo” può essere anche solo un piccolo quartiere borghese a Nord di Roma – che solo l’adolescenza porta con sé. E se c’è un insegnamento che più di altri un libro del genere può restituire, è quello di seguire sé stessi, di assecondare il proprio impeto giovanile, di credere nel sogno e nell’utopia anche se di fronte hai solo muri di cemento o mulini a vento. Forse i mulini a vento sono proprio l’immagine più calzante, perché i ragazzi che sono protagonisti di questa storia – quelli che oggi rievocano con nostalgia, quelli hanno pur messo tra sé e questi fatti una distanza, quelli che poi, inaspettatamente, si sono ritrovati a governare (male) questo Paese, ma soprattutto quelli che non ce l’hanno fatta, che non ci sono più – erano tanti Don Chisciotte, persi nel sogno di una rivoluzione impossibile e pronti a combattere per un’idea che a conti fatti esulava dal Fascismo stesso e da ogni sua possibile, moderna declinazione. Si è contro perché la giovinezza deve essere contro, si è dalla parte dei vinti perché un ragazzo non può conformarsi, omologarsi, abbracciare la dottrina di chi governa e di chi comanda, il pensiero unico. Ecco perché allora c’è chi ha fatto questa scelta, e Giuseppe ce lo spiega bene nelle sue conclusioni dal retrogusto un po’ amaro, fotografando l’attuale realtà non solo italica, ma dell’intero mondo occidentale. E dunque a questo serve ricordare, tramandare queste esperienze e queste voci, non perdendo di vista la realtà e la vita intima, familiare, che l’autore non fa mai mancare attraverso la sua narrazione nella narrazione: un bambino piccolo – suo figlio – che si sveglia di notte e che attraverso qualche fiaba, che alimenta e fa scorrere i ricordi, bisogna riaddormentare.
Ho conosciuto Giuseppe Iellamo tra fine del 1994 e l’inizio del 1995, non ricordo bene. Ormai è passato qualche anno pure me, da quel tempo. Entrai nel Coordinamento Roma Nord, nella sezione Balduina, proprio allora, nel periodo in cui il M.S.I stava per trasformarsi in Alleanza Nazionale. Di lì a un anno o qualcosa in più, il Fronte della Gioventù divenne invece Azione Giovani. Peppe, come noi lo si chiamava, non era da poco più coordinatore di Roma Nord, al suo posto c’era Tato, che fu il mio primo referente politico di allora, dato che io divenni quasi subito segretario giovanile della sezione Balduina, non ancora denominata Circolo territoriale. Ricordo tanta colla e tanti manifesti anch’io, per diversi anni, fino al duemila inoltrato. Ricordo diverse veglie notturne. Ricordo, sia pur avendo vissuto le esperienze che Iellamo racconta proprio al loro culmine, molti di quegli adolescenti di cui Peppe ci parla suo libro, divenuti ormai trentenni o giù di li. Alcuni di loro incominciavano a entrare pure nelle istituzioni che contano. Come racconta Peppe, c’è chi è diventato addirittura Sindaco, Deputato, Senatore. Il primo ricordo che ho dell’autore di questo libro è proprio in un giorno d’inverno, nella sezione Aurelio, nel quale noi ragazzi di Balduina eravamo andati ad assistere, insieme agli altri ragazzi del Coordinamento, a un gruppo di studio sulla Tradizione, tenuto proprio da Peppe. Vado a memoria, mi scuserete perchè è passato davvero tanto tempo, ma tra Evola e Guénon, che tutto erano fuorché vicini al Cristianesimo e alle sue diverse derivazioni, Peppe ci fece tutto un discorso sul guardarci intorno mentre camminavamo per Roma, per la nostra bellissima e controversa città: “Guardatevi intorno mentre camminate, e scorgerete ovunque i segni della tradizione cristiana. Soffermatevi sulle incisioni presso le chiese, osservate i monumenti, ma non perdetevi nemmeno vicoli e anfratti, c’è un tesoro ovunque se lo saprete scorgere”. Io non sono mai stato cattolico, né tanto meno religioso, seppur battezzato. Ho letto a lungo Evola e anche Guénon, ho amato molto e fatte mie, culturalmente parlando più che in maniera fideistica o religiosa, le dottrine orientali. Eppure quei segni, quando vago senza fretta per la Capitale, mi sorprendo ancora a scorgerli, da allora.
“Pino Rauti ci parlava di Patrie immaginarie. E noi, piccoli, lì davanti ad ascoltarlo. Quando preso dall’entusiasmo si toglieva gli occhiali, dando appena un po’ più di enfasi ai suoi ragionamenti, veloci arrivavano i brividi lungo la schiena. E non ti importava nulla se eri la parte meno amata del Paese. Non t’interessava dell’odio che ti circondava, non ti curavi se la Polizia ti avesse fotografato all’ingresso di quella sala per conferenze. Eri lì e, nello stesso tempo, lontano: ancora una volta insieme a quegli sconosciuti ragazzi europei in divisa, fra fango e stelle, che attendevano in silenzio l’arrivo dei carri armati statunitensi. Insieme a tutti coloro che, faticosamente, continuavano a domandarsi se potesse esistere un’altra strada fra Capitalismo e Marxismo. Nonostante tutto il sangue sacrificato dall’orrore di una guerra mondiale. Già; eri lì. Pino Rauti ci parlava con toni pacati, inforcando di nuovo i suoi occhiali grandi; e noi, piccoli, seduti ad ascoltarlo: fra fango e stelle, con i brividi che non erano di freddo”. (pp.158-159)
Federico Magi, giugno 2016.
Edizione esaminata e brevi note
Giuseppe Iellamo è nato nel 1966 a Roma, dove esercita la professione forense. Negli anni Ottanta è stato dirigente provinciale romano del Fronte della Gioventù, organizzazione giovanile del Movimento Sociale Italiano-Destra nazionale. Questa è la sua prima esperienza editoriale.
Giuseppe Iellamo, Di notte. Militanti, colla e manifesti, a Nord del Tevere dalla fine degli anni Settanta all’alba del Terzo millennio, Edizioni Settimo Sigillo, 2015. Introduzione di Luca Tedesco.
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