“Tutto a un tratto, fu lui a prendere in mano la conversazione, insegnandoci quelle che considerava le tre lezioni necessarie al buon andamento nella nostra esistenza e del nostro avvenire: Se uno di voi si trova in serie difficoltà, e dico serie, nella scelta tra andare in prigione o all’ospedale psichiatrico, che scelga la prigione, perché da lì le persone escono tutti i giorni […]
La seconda riguarda la nazionalità, una nozione che non ha alcun senso ai miei occhi, semplicemente perché un individuo non appartiene a una nazione in particolare. Noi siamo tutti un insieme di etnie, e la vostra è bohémien. Quel sangue scorre nelle vostre vene come nelle mie. Siate fieri delle vostre origini, perché quella è la vostra vera identità, e portatela con orgoglio!
La terza lezione ha a che fare con il linguaggio dei segni” (pag. 146).
Parlava poco Charlie Chaplin con i suoi figli più piccoli. Pressoché mai, stando ai ricordi di Jane, una degli otto rampolli che l’attore e regista inglese ha avuto con Oona O’Neill, la sua ultima compagna. Vivere in casa Chaplin per Jane è stato un autentico trauma da cui non sembra essersi ripresa mai – perlomeno nei fatti narrati nel suo libro. E come lei anche gli altri fratelli e sorelle, Eugene, Christopher, Viktoria, Geraldine, hanno dovuto combattere per trovare un proprio equilibrio che la famiglia non è stata in grado di offrire. Chi ha sofferto di alcolismo, chi di anoressia, chi di obesità, chi di continua angoscia, chi, come Geraldine, ha trovato coraggio nella propria carriera di attrice, cercando poi di infondere forza, umanità e coraggio agli altri fratelli.
Quello raccontato da Jane Chaplin è un affresco che attraversa la sua vita dagli otto anni, nel 1965, alla morte della mamma, nel 1992. Trent’anni di una famiglia ramificata che attraversa gioie e dolori in due fasi quasi distinte: la possente presenza del padre taciturno, vecchio e debole, sostenuto dalla ferocia di Oona, abile soprattutto a tenere lontano i bambini, e il periodo successivo alla morte di Charlie, dove la rigida tirannia si sgretola per sempre, devastando Oona col suo alcolismo e, indirettamente, tutti i figli, che cercano di guarirla invano. Fra loro Jane è la più ribelle e nevrotica, cresciuta pressoché da sola, senza affetto materno, e col desiderio di quello paterno, troppo lontano da raggiungere, tra balie e scuole sbagliate, cresciuta con uomini che approfittavano del suo cognome per chiederle prestiti o per sfruttarla, senza una città fissa in cui vivere, con i fantasmi senza volto di un passato infernale.
Jane dice di amare i film Il padrino e Il padrino parte seconda. E non è casuale. L’epopea familiare trova il suo apice nella prima parte, dove, col punto di vista di una bambina, viene mostrato al lettore curioso cosa vuol dire essere miliardari ma infelici. Quanta fatica può costare vivere in una splendida tenuta a Vevey e soffocare la propria vivacità infantile per non disturbare il Genio all’opera, rintanato nella sua biblioteca al primo piano, lontano da chiunque. Jane a bocconi amari spiega che avere un genio in casa può essere causa di estrema infelicità.
La madre è il caprio espiatorio: è lei che pone le differenze: i bambini non sono degni della genialità del padre e devono impararlo da subito. Non devono sognarsi di poter competere con lui. E non devono disturbarlo, né fare domande, né rivolgergli la parola. Né – addirittura – permettersi di perdere una sua matita. Loro (Charlie e Oona) hanno le loro matite. Loro hanno anche i loro biscotti. I bambini non devono toccarli. “Loro e noi” diventa un dogma da rispettare a ogni costo.
C’è stato però almeno un evento epocale. Il 17 novembre 1974 la diciassettenne Jane parla per 17 minuti con suo padre. Per la prima volta. Quell’uomo di 67 anni più grande di lei è finalmente solo e lei può approfittarne. Ha 84 anni ed è seduto sulla poltrona, davanti a una partita in tv. E questa conversazione tanto preziosa viene distillata nel libro poco per volta, in apertura dei 17 capitoli che corrispondono ai minuti del loro incontro. Fra questi 17 minuti si apre la lunga storia di casa Chaplin, e di Jane in particolare.
In quei pochi minuti la ragazza scopre un altro uomo, diverso nel modo di guardare e nelle parole, da quello che è sempre stato suo padre. È in quei pochi minuti che Jane che ci racconta un genio: umile, tenero, anche affettuoso e – miracolo! – insicuro di sé. Non può che essere il suo ritratto più dolce. Altri e più crudi verranno proposti (il peggiore è un decrepito Chaplin che si ciba di frattaglie a tavola, di un simbolismo molto efficace) tutto sommato pochi, poiché quell’uomo, nel libro come nei ricordi di Jane, è stato davvero poco più che un’ombra.
È raccontata molto bene l’angoscia interiore della donna. E a ripensare alla frase “Noi siamo tutti un insieme di etnie, e la vostra è bohémien” viene da sospirare che l’esistenza dell’autrice non possa avere migliore definizione: una ricerca di affetto continua, tormentata e affannosa. Tenta la via dell’arte, la scrittura, la regia di un cortometraggio, la produzione. Il suo modello è forse Geraldine che ha capito subito cosa fare e con successo. Il libro racconta di continue audizioni e dell’ansia che possono portare a chi deve superarle. Il libro è molto sofferto ma non è un fotoromanzo né un’accozzaglia di livore. È la dimostrazione che l’infanzia è il momento più delicato della vita e l’affetto di una famiglia normale il più grande diritto di un essere umano.
Edizione esaminata e brevi note
EDIZIONE ESAMINATA e BREVI NOTE
Jane Chaplin (1957), produttrice cinematografica svizzera, figlia di Charlie Chaplin.
Jane Chaplin, “17 minuti con mio padre”, Giulio Perrone Editore, Roma, 2009. Tradotto da Maria Camilla Brunetti.
Approfondimento in rete: affari italiani / sito dell’editore
Luca Martello, 16 marzo 2010.
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