“Non voglio dire che questo libro abbia un finale tragico, ho già detto nella prima riga che questo è il mio libro preferito. Ma c’è del brutto in arrivo, alle torture siete già preparati, ma c’è di peggio. E’ in arrivo la morte, ed è meglio che afferriate questo punto: muoiono le persone sbagliate. Siate pronti. Questa non è una storiella”.
Quando William Goldman si inserisce nel bel mezzo della narrazione per dirci queste parole, appare del tutto evidente quel che molti lettori, arrivati a questo punto, probabilmente presagivano. Ovvero che la fiaba mutuata da S.Morgenstern, fantomatico narratore da cui Goldman taglia su misura questa appassionante avventura, pur procedendo con invidiabile baldanza è agilità, è molto più sarcastica e malinconica di quel che supponeva un bimbo di dieci anni costretto a letto da una febbre persistente. Ma andiamo con ordine. Il bimbo in questione è lo stesso Goldman, nato poco fuori Chicago nell’estate del 1931 e divenuto con l’età adulta sceneggiatore di successo (ricordiamo i suoi titoli imperdibili: Il maratoneta, Butch Cassidy e the Sundance Kid, Tutti gli uomini del Presidente), al quale il padre, nel tentativo di intrattenerlo lungo il corso della malattia, leggeva una fiaba fantastica ed appassionante che gli rimase sempre nel cuore. Il libro più importante della sua vita, un libro che però non aveva mai letto: La principessa sposa di S. Morgenstern. Molti anni dopo, memore di quella esaltante esperienza, Goldman cerca di fare lo stesso con il proprio figlio di dieci anni, preoccupato del fatto che il bimbo non sembra avere particolari passioni se non quella di ingozzarsi di cibo. Goldman è in esilio forzato a Los Angeles, quando gli balena l’idea, intento a lavorare alla sceneggiatura di un nuovo film. Siamo all’inizio degli anni Settanta e l’aspirazione di narratore dello sceneggiatore è stata spesso frustrata dal disinteresse della critica e da insuccessi di vendita. Quando faticosamente riesce a procurarsi una copia dell’opera di Morgenstern, la regala con orgoglio al figlio, che però trova il libro difficile e noioso e si arresta dopo poche pagine. Come è possibile che La principessa sposa non abbia generato nel bambino lo stesso interesse provato da lui alla stessa età? Goldman prende in mano Morgenstern, e lo legge per la prima volta. Si accorge che le vicende narrate sono molto più complesse e malinconiche rispetto a come il padre gliele aveva raccontate tanti anni prima. Capisce che l’uomo aveva avuto la particolare sensibilità di omettere le lunghe descrizioni tediose e i momenti più difficili da accettare per un bambino. Decide allora di riscriverlo lui, tagliando e aggiustando, intervenendo dove possibile per legare un capitolo all’altro ma con l’accortezza di usare il corsivo per differenziare le sue parole da quelle dell’opera originale. Ne venne fuori il capolavoro che è oggi La principessa sposa, un’opera che mescola molteplici registri emotivi e che come poche altre cavalca le più diverse onde emozionali, intrecciando fiaba, avventura e riflessioni esistenziali, lasciando molti interrogativi sul campo, quei dubbi salvifici che sono linfa vitale per ogni letteratura degna di questo nome.
Senza voler entrare troppo nel dettaglio, mi è d’obbligo tracciare le linee guida di una storia che, v’assicuro, va assolutamente letta e non raccontata. A meno che non la leggiate a voce a vostro figlio piccolo, proprio come fece il babbo di Goldman. Siamo a Florin, terra resa mitica dalla narrazione di Morgenstern, luogo dove si innesca la curiosa storia d’amore tra la lattaia Buttercup e lo stalliere Westley. Buttercup, che aveva sempre trattato Westley come un servo, si accorge improvvisamente del suo folle sentimento. Buttercup è una delle donne più belle del mondo, anche se nessuno ancora lo sa, e folle è il termine giusto per aggettivare sinteticamente la situazione, perché da questo amore improbabile si dipana una storia che costringerà l’ex stalliere a emigrare in America in cerca di fortuna, con la promessa di tornare dal suo amore quando le circostanze consentiranno loro una vita dignitosa. Qualche anno dopo, dato per morto Westley, Buttercup, preda di un incolmabile vuoto affettivo e di ogni possibile ragione di vita, accetta la corte interessata nientemeno che dello spietato principe di Florin, un cacciatore infallibile che s’è fatto costruire nel castello uno zoo personale con all’interno gli animali più pericolosi del mondo. Lo Zoo della morte: cinque piani di pericolo e di terrore, veri e propri gironi dell’inferno e del dolore in cui il principe si diverte a cacciare e torturare le sue feroci prede. Senza volervi svelare troppo altro, vi dico subito che Westley non solo è vivo e vegeto ma è diventato uno dei più temibili avversari che si possano incontrare sulla propria strada, e tornerà per riprendersi la futura regina di Florin. Nella vicenda si inseriscono altri bizzarri e affascinanti personaggi, tra cui l’infallibile spadaccino spagnolo Inigo, che ha votato la sua vita alla vendetta, e il possente turco Fezzik, gigantesco lottatore dal cervello di bambino, quasi totalmente privo di capacità d’astrazione e ragionamento. Tutti i personaggi in questione si incontreranno e scontreranno sulla via di Florin, nell’imminenza di un matrimonio sfavillante che risulterà essere il crocevia delle loro esistenze.
Detta così, mi rendo conto, può apparire la classica fiaba d’avventura, cappa e spada e grandi passioni amorose, ma vi accorgerete ben presto che La principessa sposa, ritagliata dallo sceneggiatore di Butch Cassidy, è assolutamente oltre questa pur piacevole consuetudine, e probabilmente altro se la inquadriamo nell’ottica morgensterniana, della quale però abbiamo solo la testimonianza di Goldman. Da Morgenstern Goldman ci lascia intendere di far sua la morale di fondo, quella che la vita non ha una logica del lieto fine, e che l’amore non è tutto rose e fiori. Ci tiene a ribadirlo, proprio nelle sue riflessioni conclusive, rubando un pizzico di sarcasmo all’autore che l’ha ispirato: “Non sto cercando di demoralizzarvi, cercate di capire. Voglio dire che penso che veramente l’amore sia la cosa più bella del mondo, dopo le pasticche per la tosse. Ma devo anche dire, per l’ennesima volta, che la vita non è giusta. È solo più decente della morte, tutto qui”. Messe a conclusione della fiaba, queste parole possono lasciare presagire il senso di quel che potrebbe essere, perché Goldman gioca abilmente sul finale aperto e su una serie di suggestioni ambivalenti che a tratti scuotono il lettore ma che non gli sono per nulla d’inciampo nella lettura scorrevole dell’opera.
Altro indubitabile pregio della Principessa sposa è quello di far emergere, fino a farci amare più di Westley e Buttercup – che al di là delle apparenze e grazie a un gioco pregevole di incastri narrativi, rimangono emotivamente sullo sfondo -, le figure di Inigo e Fezzik, anime perse e disperse in un vortice di scrittura che cattura, sorprende e ribalta a più riprese i piani emotivi. L’indagine delle loro psicologie, le loro storie personali, sono un potente sottotesto e a conti fatti una delle maggiori fonti di interesse della vicenda. Figure che restano impresse, alla cui causa il lettore non può che aderire spontaneamente, provando un’empatia e un senso di intima solidarietà che non può nutrire nei confronti degli altri personaggi. In effetti, a loro modo, Inigo e Fezzik, per motivi assai diversi, sono i più puri sulla scena, considerato che anche lo stesso Westley, teoricamente l’eroe positivo per eccellenza, restituisce una certa impenetrabilità che non favorisce l’immedesimazione.
Se, come ci dice Goldman, La principessa sposa è stato da lui ridotto all’essenziale (ma gli crediamo?) rispetto al misterioso e introvabile testo originale, l’opera dello sceneggiatore è stata davvero rimarchevole. Se invece è totale frutto della sua immaginazione c’è da lodarlo ancor più, mi pare chiaro. In un caso come nell’altro quel che resta è un libro straordinario, che unisce il più puro e spontaneo gusto per la lettura alla riflessione, tanto da aver generato consensi unanimi ad ogni latitudine del globo. Tradotto in Italia solo nel 2007, grazie all’ottima casa editrice Marcos y Marcos (è uno dei testi di cui vanno più orgogliosi), che non finiremo mai di ringraziare per averci dato la possibilità di leggerlo, La principessa sposa è senza ombra di dubbio il più grande successo letterario di William Goldman, che grazie all’epopea di Westley e Buttercup, di Inigo e Fezzik, ha coronato il sogno di essere apprezzato non solo come sceneggiatore ma anche come letterato. Di Goldman è anche la sceneggiatura del film che da quest’opera venne tratto, La storia fantastica (1987), diretto da Rob Reiner e candidato all’Oscar per la miglior canzone (Storybook Love, di Willy DeVille). Forse un modo per mantenere la memoria di un padre amorevole che letterato certo non era, per ritornare idealmente a un’infanzia in cui la televisione non esisteva e non ci poteva essere niente di meglio che una fiaba ben raccontata per allietare un giovane spirito desideroso d’avventura.
“Ogni sera mio padre leggeva, capitolo dopo capitolo, sempre lottando per pronunciare correttamente le parole, per afferrarne il senso. Ed io giacevo ad occhi chiusi e il corpo che recuperava lentamente le forze. Ci volle, come detto, un mese, forse, e in quell’arco di tempo mio padre mi lesse La principessa sposa due volte. Anche quando fui in grado di leggere da solo, il libro rimase suo. Non mi sarei mai sognato di aprirlo. Era la sua voce, il suono delle sue parole che io volevo”. (p.16).
Federico Magi, dicembre 2010.
Edizione esaminata e brevi note
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