“«Scusa, Jackie, se non è una domanda troppo personale, mi spieghi perché hai cambiato chiesa?» «Oh, be’, mia figlia ha cominciato ad andare a scuola, e la chiesa episcopale è proprio di strada. A volte l’accompagno e poi mi fermo a scambiare due chiacchiere con qualche signora della congregazione. Sai com’è, mi torna più comodo.»” (pag. 49)
Leggendo I jeans di Bruce Springsteen e altri sogni americani, opera d’esordio della traduttrice Silvia Pareschi (DeLillo, Franzen, Smith, per citare alcuni tra i tanti), non è raro trovare questo tipo di pragmatismo tutto americano, che riduce il cambio di chiesa – in questo caso da luterana a episcopale – a una semplice questione logistica, di comodità. Il volontariato, in un altro testo della raccolta, Dimmi come mangi, non diventa che un’occasione di efficienza fordista, in cui alla fine tu, persona animata da buona volontà e ottime intenzioni che dà una mano nella distribuzione dei pasti ai poveri, finisci nauseata dalla macchina organizzatrice che ti reifica a mero braccio meccanico porzionatore di cibo. Così, se la prima volta come volontaria la protagonista si meraviglia di quella ragazza che se ne sta seria senza parlare, sorridere e salutare, la seconda volta “…dovrei sentirmi buona, credo, altruista e soddisfatta di me stessa. Invece mi sento svuotata, non ho voglia di parlare né di pensare. Faccio quello che c’è da fare, come facevo alla mensa poco fa, ma mi sembra di non provare niente, solo questo vuoto, questo silenzio, questa voglia di starmene lì a guardare il mondo senza sorridere. Proprio come Aisha.” (pag. 148)
Un evento di livello mondiale come il Super Bowl, poi, capace di generare introiti miliardari e che sembra, da qui, una macchina perfetta, nasconde infiniti disagi per i cittadini: “Oltre alla chiusura di una parte del centro per tre settimane per far spazio a un cretinissimo “villaggio del Super Bowl”, con conseguente aumento del traffico già normalmente apocalittico… e sconvolgimento della rete di trasporto pubblico…” (pag.157). Da notare che il Super Bowl di cui scrive la Pareschi si è giocato a Santa Clara, cittadina a 70 chilometri a nord di San Francisco, mentre i disagi che descrive riguardano, appunto, quest’ultima. Non è, insomma, tutto oro quel che luccica, e la distanza che ci separa dagli Stati Uniti ce ne restituisce un’immagine falsata.
Eppure, in questo libro di racconti, autobiografici e non, il paese del mito della frontiera, della corsa all’oro, il paese reputato più potente al mondo non perde il suo fascino, anche per quelle contraddizioni esagerate che lo caratterizzano. Le grandi città circondate da discariche immense, le foreste che arrivano ai confini di terreni urbanizzati, con animali predatori che si possono spingere anche là sul sentiero non lontano dal luogo in cui stai, là dove magari hai passeggiato o fatto una corsetta senza fare troppa attenzione, gli uragani che passano e distruggono tutto, la setta che predica la castità (e dunque devota alla propria estinzione), i grandi viaggi coast to coast, la possibilità di incontrare il sarto di Springsteen ragazzino dopo un tour nella cittadina dove abitava, perché “… la sua non era mica una famiglia ricca, sapete, non potevano permettersi di comprare sempre roba nuova. Bruce era un ragazzo semplice, alla buona, mi portava soprattutto jeans, magari qualche camicia elegante, da matrimonio… ma soprattutto jeans, da stringere, da accorciare, da rammendare… eh, gli ho aggiustato tanti di quei jeans…” (pag. 177).
Ogni racconto restituisce il frammento di un mosaico infinito, che non siamo in grado di vedere nella totalità, di comprendere con un’occhiata, ma che si riesce a intuire, a ricostruire almeno in parte, a unire punti che ci apparivano distanti.
È un libro che ripercorre la scoperta dell’america dell’autrice in varie tappe, non ordinate cronologicamente, e che dunque mostra il mutamento nello sguardo di chi scrive, da ragazza a donna. Sono sogni, sogni che rimangono tali e sogni che si realizzano, sogni disillusi e sogni che si crepano col trascorrere del tempo, ma in fondo, per dirla con Leonard Cohen (che però è canadese) “There is a crack in everything / That’s how the light gets in”.
ab, ottobre 2016
Edizione esaminata e brevi note
Silvia Pareschi è una apprezzata traduttrice dall’inglese. Ha tradotto libri, tra gli altri, di Jonathan Franzen, Don DeLillo, Cormac McCarthy, Zadie Smith, Jamaica Kincaid, Junot Díaz. Vive tra San Francisco e il lago Maggiore con il marito, Jonathon Keats, artista e scrittore. Ha un blog: http://ninehoursofseparation.blogspot.it/
Silvia Pareschi, I jeans di Bruce Springsteen e altri sogni americani, Giunti, 2016. Euro 15.
Follow Us