Vorpsi Ornela

Fuorimondo

Pubblicato il: 20 Settembre 2012

La zia «Lali non aveva mai lavorato, distesa sull’amaca in giardino d’estate amava dire, Il tempo che ti abbonda tra le mani può divorarti. Ti abbonda del tempo tra le mani, zia?».

Ti abbonda del tempo tra le mani, zia. Leggo e rileggo questa frase, così grassa, così farcita di superfluo e mi domando come ha potuto Ornela Vorpsi disimparare a scrivere. Ricordo il suo primo libro, “Il paese dove non si muore mai”, che lei, albanese, aveva scritto in un italiano gustoso e con una prosa vispa e spontanea, ripenso alla sua capacità di giocare col macabro e di intrattenere col drammatico dei ricordi della sua infanzia comunista a Tirana, e mi chiedo cosa rimane di quella leggerezza in questo “Fuorimondo”.

L’ultimo romanzo di Vorpsi è ambientato in una stradina (anzi in un vicinato) di un paese imprecisato, senza storia e senza geografia, dato che il tempo del racconto è sfuggente (un vago secondo-novecento) e ancora di più lo è il luogo, amorfo e scialbo, in cui si svolge la vicenda. Un altrove indeterminato, ideale per gli intenti metafisici di Vorpsi, affascinata – qui ancora più che altrove – dal potere sovversivo del Bello e della Morte.

La prima metà del libro passa in rassegna i personaggi: Dolfi, giovane violinista, virtuoso ma senza talento, bello e irraggiungibile, Manuela che lo ama senza speranza, come tutte le ragazze del vicinato, e con l’aggravante consapevolezza di essere irrimediabilmente brutta; la zia Lali, bella quarantenne dal “sedere bombato” e dai “seni vigorosi”, che oscilla tra la smania di sesso e i propositi suicidari; Esmé, sua sorella, bella anche lei ma più acre e spigolosa, madre di Rafael, genio bambino morto annegato, e della giovane e irrisolta Tamar; e infine la stessa Tamar, io narrante del libro, che cuce i fili della storia: una ragazza incapace di vivere in prima persona, ma che pur da semplice spettatrice delle vite degli altri riesce a produrvi fatali sbandamenti.

Sarà la morte di Manuela (suicidio?omicidio? o, curiosamente, tutt’e due?) a smuovere la vita della stradina e a mettere in moto il processo narrativo, fermo sin dalle prime pagine alla pura descrizione di personaggi, con rapidi flashback nel passato di ognuno di loro.

«Io Tamar sono nata sotto il segno del tormento», è l’incipit del libro, e già sembra l’esordio dell’Apocalisse («Io, Giovanni, vostro fratello e vostro compagno nella tribolazione, mi trovavo nell’isola di Patmos …» , ma vedi anche il prologo dell’Ecclesiaste: «Io, Qoèlet, sono stato re d’Israele in Gerusalemme …»), tanto più che quell’io Tamar viene stucchevolemente ripetuto ogni volta che Tamar parla di sé, evitando di dire semplicemente “io”: «Io Tamar non avrei minacciato in alcun modo gli occhi che si posavano su di me», «Io Tamar non ho scelto di pensare al mio ruolo, mi è capitato», «Qualcuna piangeva, e io Tamar sempre nascosta guardavo insaziabile». Il motivo per cui una oscura ragazza di un oscuro paesino di nonsisadove debba parlare come il re Salomone è e rimane incomprensibile. Forse perché lei vede la verità più degli altri? Perché lei, come direbbe Qoèlet, si è proposta di «ricercare e investigare con saggezza tutto ciò che si fa sotto il cielo»? Mah. Sta di fatto che l’unico effetto visibile di questo vezzo veterotestamentario dell’io Tamar è quello di spargere un tono sapienziale e vanamente ieratico su tutta la narrazione.

Per il resto, la scrittura di “Fuorimondo” è zeppa di antilingua, l’italiano artefatto e inutilmente complicato che Italo Calvino riscontrava nel linguaggio burocratico, amministrativo, giornalistico e nei verbali dei carabinieri (ma ne è infetta anche la letteratura, a volte). L’antilingua è quel “terrore semantico” che induce certi scriventi a rifuggire dai vocaboli comuni, perché giudicati troppo fiacchi o inespressivi, e a sostituirli con altri più altisonanti, come se la lingua naturale avesse bisogno continuo di essere riscattata da un congenito grigiore. Tamar si esprime così, in un antitaliano sempre sopra le righe che per nominare le cose preferisce sempre le vie traverse, la lectio difficilior: il brivido dello spavento le percorre il “cranio”, invece del più umile cervello; una voce dentro di lei le ordina di “colarsi” lungo il corpo di Dolfi, anziché di stendersi al suo fianco; e per guardare la zia Lali che “stagna” nel suo letto (no, non giace indolente: stagna), Tamar non si affaccia dalla soglia, ma ne “affiora”. Ogni esperienza viene sublimata, resa estatica e sensazionale, tutto è gonfio, dopato, abnorme: l’amore «piove feroce», la mancanza «svuota la carne», e la sofferenza fa «penare il respiro». L’antitaliano di Tamar è una caricatura della sensibilità, si spossa d’amore e si inebria di dolore: «ho proprio cercato di essere bella con tutte le mie forze fino al dolore», confessa Tamar, che si definisce anche «curiosa fino al dolore» (?) e capace di «vedere fino al dolore» (!). Fino alla fine, il registro di Tamar rimane questo, un’antilingua da “précieuse ridicule” coi sentimenti sempre sull’orlo del collasso: «quando ti è capitato di sfiorare una briciola di consolazione, una carezza fatta da Esmé, una certa musica, hai pianto tutto il tuo corpo», dice a se stessa Tamar, «ammaccata dall’immenso peso di figlia» poco amata (ma se invece di schiacciarti ti ammacca soltanto, il peso non deve essere poi così immenso …). Per non dire dell’uso e abuso di “animo” e “anima” che a confronto il paroliere dei Cugini di campagna è minimal («Calmati l’animo Tamar». Ma un semplice «Calmati Tamar» no?).

In mezzo a tanta solenne immensità, irrompe come una IndyCar sull’isola di Patmos la punteggiatura vorpsiana, che a volte, improvvisamente e senza apparente giustificazione, decide di fare a meno delle pause della virgola, dando vita a strane e velocissime creature lessicali come «la schiena curva magra» della vicina Hera, le «gambe lunghe lisce» di Lali, la «piaga grande aperta» nella mente di Tamar, per tacere del «vestito ginocchia mani» che Tamar si sgualcisce scavando dentro una tomba. Cosa spiega queste improvvise impennate di velocità che squarciano l’incedere giovanneo di “Fuorimondo”? Forse una tardiva adesione al Manifesto futurista? Al “Paroliberismo” di Zang Tumb Tumb?

E soprattutto cosa spiega l’approdo di Ornela Vorpsi a una lingua adulterata, geneticamente modificata come quella di “Fuorimondo”? Ipotesi: uno xenomorfo si è introdotto dentro di lei attraverso una “piaga grande aperta”, si è insediato nel suo “cranio” e ora le sta divorando “l’anima”. Attendiamo il sequel.

Edizione esaminata e brevi note

Ornela Vorpsi (Tirana, 1968), scrive in italiano e le sue opere sono state tradotte in 15 paesi. E’ stata segnalata tra i trentacinque migliori scrittori europei nell’antologia Best european fiction. Presso Einaudi ha pubblicato “Il paese dove non si muore mai”, (2005), “La mano che non mordi” (2007) e “Bevete cacao van Houten” (2010).

Ornela Vorpsi, “Fuorimondo”, Einaudi, Torino, 2012.

Bibliografia consigliata: Andrea Cortellessa, “Narratori degli Anni Zero”, Roma, Ponte Sisto, 2012.

Approfondimento in rete: RECENSORE + VIADELLEBELLEDONNE.

Elettra Santori, 2012