Carroll Rory

Storia segreta di Hugo Chávez. El comandante

Pubblicato il: 1 Aprile 2013

“Quando si allontana rilassato insieme alla guardia del corpo costituita da ufficiali decorati e intimi amici, sono sopraffatto dalla sensazione di aver appena viaggiato e chiacchierato amabilmente con due uomini che sono l’uno l’opposto dell’altro. Uno a cui i capricci del destino hanno dato la possibilità di salvare il proprio paese. L’altro, un illusionista, che potrebbe passare alla storia semplicemente come l’ennesimo despota” (pag. 13). Così nel prologo vengono riportate le parole di García Márquez: il grande scrittore aveva incontrato Chávez nel 1999 durante un viaggio di ritorno da Cuba e poco dopo il successo elettorale che faceva del “El comandante” il più giovane leader della storia della repubblica venezuelana.

“Storia segreta di Hugo Chávez”, libro che scorre molto bene, non è strutturato come una biografia ma semmai appare come un reportage fatto di investigazioni, interviste: pagine che “potrebbero riservare qualche sorpresa ai lettori che hanno conosciuto Chávez soprattutto per le sue invettive contro gli Stati Uniti” ed anche risultare “un rospo duro da mandare giù per molte molte persone”, come leggiamo sull’Indipendent on Sunday e grazie ad Alma Guillermoprieto. Di sicuro l’opera di Rory Carrol, presso tutti coloro che hanno idolatrato “El comandante” come la versione virtuosa del socialismo caraibico, sarà presto tacciata di disinformazione, di operazione imperialistica e di tutto il consueto repertorio reazionario. Sarà inevitabile perché “Storia segreta di Hugo Chávez” (titolo originale e probabilmente più serio: “Comandante. Hugo Chávez’s Venezuela”) se in qualche modo risponde alla domanda del sottotitolo, “Dittatore o Rivoluzionario?”, senza fare dell’ex presidente un mostro di totalitarismo, ed anzi sottolineandone alcune qualità umane e intellettuali, però non fa alcuno sconto su cosa abbia voluto dire il Venezuela sotto la precaria rivoluzione chavista. Carroll verso la fine del suo ampio reportage è giunto a conclusioni molto chiare: “Un vero dittatore rischia sempre di scivolare in un regno di fantasia, il suo illusorio pensiero riecheggiato dai suoi lacchè. Quando arriva la realtà (una folla ai cancelli, un’insurrezione), di solito è troppo tardi. Ma Chávez non è un dittatore. Chávez resta un ibrido, un autocrate eletto, ed è questo che lo salva. Sono le elezioni a riportarlo alla realtà, salvandolo bruscamente dal precipizio” (pag. 296). Ed ancora: “Il Comandante presiede una democrazia autoritaria, un ibrido tra culto della personalità e governo di un uomo solo che però comunque permette partiti di opposizione, libertà di parola, ed elezioni libere anche se non del tutto eque [….] Anni di entrate record grazie al petrolio hanno inondato il paese di contanti, riducendo la povertà. Lo stato ha offerto e offre gratis educazione, cure mediche, prestiti, sussidi, borse di studio, lavoro. Ma le distorsioni bloccano l’economia. L’inflazione brucia i portafogli, di tanto in tanto nei supermercati vengono a mancare i beni di prima necessità, e la burocrazia soffoca affari e persone comuni” (pag. 26). “El comandante” viene descritto come un uomo che si poteva pure vantare di risultati concreti, avendo predicato gli interessi dell’America Latina, criticato i ricchi, detto ai poveri che era loro diritto avere un posto a tavola, senza doversi vergognare della loro condizione. Questa la teoria. La pratica ha voluto dire altro e dalle pagine del libro di Carroll si scopre un Chávez che ha lasciato soprattutto un’eredita di sprechi, pur essendo un politico di talento, empatico con i poveri.

Un politico ex golpista che ha avuto la fortuna di venire contrastato da un’opposizione screditata fatta di golpisti ed ex golpisti; ed inoltre di subire l’ostracismo degli U.S.A., amministrazione Bush Jr. in particolare. Quel tanto, come riflesso condizionato, da meritagli le simpatie di gran parte dei cosiddetti antimperialisti. Ma una volta lasciate da parte le proprie passioni ideologiche e andando a ragionare sui fatti, ammesso che si vogliano considerare fatti quelli raccontati da Rory Carroll, le prospettive cambiano ed anche molto. Il nostro autore, per comprendere la “rivoluzione” e la profezia di García Márquez, ha rigorosamente evitato di dare credito a chi urlava sui media ed invece ha fatto tre cose: ha seguito il presidente nelle sue giornaliere ed interminabili maratone televisive (praticamente versioni estremizzate dell’italiano Tg4), ha cercato i cortigiani, i funzionari che gli sono stati vicini, ed infine ha descritto gli effetti della rivoluzione sulle città, sui villaggi, le fattorie, le fabbriche. Grazie a questo reportage il lettore scoprirà l’esistenza di “The Razorblade”, un talk show serale dove il presentatore Mario Silva attacca i nemici del presidente con feroci monologhi, completati da fotografie imbarazzanti degli avversari politici di Chávez, frammenti di intercettazioni che dovrebbero rivelare il sudiciume dell’opposizione. Uno dei tanti esempi di come il controllo dei media da parte del governo abbia rappresentato una formidabile arma di potere; dove i quotidiani dell’opposizione rimangono a secco della pubblicità governativa e vengono regolarmente sanzionati per presunte violazioni di legge, e dove “l’amnesia del paese rende facile modellare la storia” anche grazie collaboratori pagati appositamente per riscrivere testi allineati alle verità ufficiali. Situazione che peraltro conosciamo anche in Italia, anche se non nelle forme venezuelane, e che viene considerata una ferita per la democrazia dagli stessi che poi osannano Chávez. Probabile ci sia sfuggito qualche passaggio.

Tornando al Venezuela chavista, se Carroll evita di approfondire i rapporti tra Chávez e gli amici Assad, Gheddafi, Ahmadinejad, Lukashenko ed altri capi di stato che con democrazia e diritti umani hanno avuto rapporti alquanto discutibili, ci dice invece qualcosa di più riguardo la Cuba di Castro (“Fidel ha a lungo sognato di cooptare il Venezuela e la sua ricchezza petrolifera nella rivoluzione cubana”) mediante le parole di un “Andrés”, analista ex stretto collaboratore, rimasto anonimo per paura di ritorsioni: questi, uomo di sinistra, considera Fidel un anacronismo, “un racconto ammonitorio di idealismo rivoluzionario tramutatosi in controllo totalitario e fiasco centralizzato. Ma sembra che il Comandante stia cadendo sempre più profondamente sotto l’incantesimo dell’uomo più anziano. Il colpo di stato del 2002, dice Andrés, spinge ancor di più Chávez tra le braccia di Fidel” (pag.112). Coerentemente a questa concezione molto particolare di “democrazia” leggiamo come sia nata la famigerata “Lista Tascon” (documento digitale di tre milioni di persone), conosciuta come la vendetta di Chávez: “una lista che ufficializza la divisione del paese. Gli eretici da un lato, i credenti dall’altro. Il governo e gli uffici statali cominciano a usare la lista per epurare i firmatari dal libro paga dello stato, per negare lavori, contratti, per rendere ufficiale il settarismo” (pag. 116). Lista che ha generato anche corruzione perché i dati possono essere manipolati.

Ed ecco l’altra parola chiave del Venezuela rivoluzionario: corruzione. Un sistema che nei fatti si fa beffa di tutta la retorica socialista proprio per la presenza di una corruzione spaventosa, incentivata grazie alle distorsioni imbastite da Giordani, uno dei cervelloni del regime, tali da facilitare il saccheggio di risorse pubbliche e da far scivolare il paese alla fine della scala di onestà misurata da Trasparency International, ente di controllo anticorruzione. Corruzione che si misura anche col fatto che il narcotraffico impazza più che mai dopo che Chávez ha espulso gli agenti antinarcotici statunitensi accusandoli di spionaggio e in cambio di lealtà ha chiuso “un occhio sui generali dell’esercito che fanno affari con i trafficanti colombiani”. Altrettanto significativa l’intervista ad Eva Golinger, statunitense-venezuelana, giornalista e storica supporter del regime: “ [..] ‘C’è una corruzione enorme, lo vedo, certo’. E allora perché, dal suo piedistallo giornalistico, non indagare e denunciare? La Golinger sbarra gli occhi. ‘No, no, non posso farlo. Sono coinvolte persone molto potenti, Sarebbe pericoloso. Mi limito a distogliere lo sguardo e a concentrarmi su tutte le cose positive che stanno accadendo’. Per una presunta campionessa della verità, è una confessione schiacciante” (pag. 217). Il reportage – impietoso – continua con l’intervista a González, un sindacalista finito in galera per aver organizzato uno sciopero nel 2006, adesso in libertà condizionata e col dente avvelenato: “Siamo stati puniti per aver fatto gli interessi degli operai […] Stanno criminalizzando le proteste. Un continuo processo persecutorio per intimidirci e non lasciarci rivendicare i nostri diritti” (pag. 233). L’economia chavista viene descritta anch’essa in maniera impietosa: “I vertiginosi pressi del petrolio del mondo permettono persino ad una disfunzionale PDVSA che spende troppo e produce poco di guadagnare abbastanza per comprare la compiacenza dei venezuelani. Lo fa attraverso i sussidi. Sovvenziona cibo, elettricità, telefoni, cellulari, case, sovvenziona quasi tutto. Non tutti beneficiano della cosa (c’è bisogno di contatti, pazienza e fortuna per ottenere i sussidi più succosi), ma il fatto che lo stato offra questi beni a prezzi più bassi dei privati fa di Chavez un magnanimo benefattore. Colma le crepe del paese con miele dolce e appiccicoso” (pag. 236).

Ma mentre di queste sovvenzioni pagate grazie al petrolio Chávez si fa un gran vanto, sul tema della sicurezza le cose stanno diversamente. Nonostante il crimine letteralmente impazzi, facendo di Caracas una delle città più pericolose del mondo, Carroll, dopo aver raccontato alcune imprese delle gangs, rileva come questo problema devastante rimanga ai margini dell’agenda governativa: “una cosa incredibile. La sua popolarità resta stabile nonostante i suoi stessi elettori vengano sequestrati, legati, feriti, percossi, buttati a terra, ammazzati, e sotterrati. Chávez è riuscito in quest’impresa facendo una cosa contraria alla sua natura: ha tenuto la bocca chiusa” (pag. 255). Una rivoluzione che pare aver deluso molti suoi sostenitori della prima ora, a cominciare da Noam Chomsky, socialista libertario per sua stessa ammissione, che già impressionato dalla concentrazione di poteri in capo al “Comandante”, seppur con attenta circonlocuzione, ha preso le distanze dal regime dopo la sconcertante incarcerazione del giudice María Lourdes Afiuni, rea di aver liberato Eligio Cedeño, personaggio inviso al regime, incriminandola, in assenza di prove, di “corruzione morale”. Il libro di Rory Carroll, dopo aver raccontato tanti altri aspetti controversi del regime chavista, si chiude con la morte del “Comandante” ma, coerentemente con certo clima farsesco che si respirava in vita, non dimenticando le parole di Maduro il successore designato: “il cancro che lo ha ucciso non era naturale”. Così a “France Presse”: “Personalmente credo che serva un’inchiesta. Come sapete, alcune potenze mondiali hanno sperimentato armi per diffondere virus o tumori, e sono convinto che il comandante Chavez è stato infettato. È una mia convinzione personale, e ho tante ragioni e un sacco di informazioni che mi inducono a pensarlo”. La saga continua.

Amarcord. “Chavez è un mio amico, è molto bravo” (Silvio Berlusconi, Agi, 11 giugno 2009)

Edizione esaminata e brevi note

Rory Carroll (1972), è nato a Dublino e ha lavorato come corrispondente di «The Guardian», inviato in vari teatri di guerra. Alla fine degli anni Novanta ha vissuto a Roma, da dove ha seguito le vicende interne al Vaticano e la parabola politica di Silvio Berlusconi. Attualmente è corrispondente dall’America Latina, e negli ultimi cinque anni ha vissuto a Caracas.

Rory Carroll, “Storia segreta di Hugo Chávez. El comandante”, Newton Compton Editori, Roma 2013, pag. 320

Approfondimento in rete:

http://en.wikipedia.org/wiki/Rory_Carroll +

http://www.rorycarroll.co.uk/

Luca Menichetti. Lankelot, aprile 2013