Di nuovo (visti gli ultimi tre pezzi che ho scritto qui) mi trovo a scrivere che l’autrice di questo libro, di questa raccolta di poesie, è una persona che conosco. La cosa che a me sembra curiosa è che siamo, diciamo, compaesani, nel senso che entrambi siamo di Pistoia (anche se io vivo a qualche chilometro dalla città, in effetti), ma ci siamo conosciuti tramite internet. Lei pubblica cose sue e di altri su Nazione Indiana, io ogni tanto commentavo i suoi pezzi. Così ci siamo conosciuti. Ci siamo poi incontrati in occasione, purtroppo, di una lettura in memoria di David Foster Wallace, lo scrittore americano che un anno e poco più fa si tolse la vita. Lo amiamo tutti e due, credo di poterlo dire con quasi sicurezza. Francesca è una poetessa. Io non sono bravo a parlare, a scrivere di poesia. Ma certe volte val bene sforzarsi un po’, e dare fondo a quella inadeguatezza che mi porto dentro.
Questa sua silloge è stata pubblicata come premio per una raccolta inedita della rassegna di poesia giovanile Nodo Sottile, nel 2005. Nodo Sottile è progetto di promozione della poesia giovanile dell’Archivio dei Giovani Artisti dell’Assessorato alla Cultura del Comune di Firenze. Il volume presenta, oltre le poesie, chiaro, l’introduzione, che a me è molto piaciuta, dei due curatori di Nodo Sottile, Vittorio Biagini e Andrea Sirotti, ed una intervista all’autrice.
Passo alle poesie.
Sono poesie al gusto di cristallo, nel senso che cristallizzano movimenti, gesti, odori, cose, la natura. Non penso ci potesse essere titolo migliore, per una raccolta del genere. Artico, eppure vi riconosco un artico pistoiese, forse solo perché abito questo pezzo di terra, non so. È una sensazione che prende mentre si leggono: un riconoscere, un riconoscersi. Sarà che è una poesia pervasa di boschi, e anche se so non esserli esattamente i miei, sono vicini, li sento tali. È una atmosfera in cui mi sento a mio agio, anche se. Nella scrittura di Francesca accade sempre qualcosa, che è anche un accadersi.
Ma torno alla montagna, alla montagna pistoiese. A me piace molto, una scoperta tardiva, camminare per sentieri montani, nonostante le mie buone vertigini. Ma tanto, gli Appennini, cosa vuoi che siano. In ogni caso, a me bastano.
Saliamo un attimo su questi monti che fanno da confine per la Toscana con l’Emilia Romagna, e per Pistoia, con Bologna e Modena. La zona amata da Francesca è quella ad est: il comune di Sambuca (noto anche per Pavana, cari gucciniani), dove passa la Porrettana (SS 64) che arriva a Bologna. Specifichiamo un po’, e diciamo Torri.
Basta poco per sentire la differenza nell’aria, all’inizio ti colpisce con la sua leggerezza, poi ti abitui, ma stavolta non c’è tempo, le poesie ci chiamano, così torniamo subito indietro, scendiamo dai monti (e di notte, in macchina, è…) ed ecco la città, che avevamo già dimenticato, nuova, un grumo di case e di strade da cui si dipanano arterie pianeggianti in varie direzioni.
E queste poesie sono come una sorta di condensato montano che giunge in città, si ferma, fluisce nella scrittura di Francesca, ed arriva ai lettori. Pochi giorni fa le dicevo che mi sembravano, le sue poesie, come sangue che esce da ferite, che non viene pulito, ma lasciato fluire, e che si solidifica in varie forme, intorno. Ma era una immagine ancora confusa nella mia testa.
Attraverso la scrittura, ora ci sono, è come se pulisse quelle ferite.
Sono poesie che osservano le ferite, ne fanno uscire il sangue, quindi le disinfettano, e la pulizia brucia, ci brucia, ma è necessaria per guarirle.
Non saprei come altro dirle, quindi mi fermo qui.
E metto di seguito i suoi versi
Luce di pozzo
Questo è il luogo dove riempie il sonno,
il pane scavato nelle bocche
le luci sui polsi
come cucchiai incerti.
Si scivola sotto ai mastelli
piegando le pelli al risciacquo –
trema la stanza fonda dove
calano le mani nella sete.
Siamo accolti e lavati
appena oltre un celarsi di serpi,
ceste ricolme di stracci –
qui non s’incontra ma si è separati.
La lavandaia non guasta
il panno sulla pietra –
lo passa più volte nell’acqua fino a che
il sangue è acqua.
Nulla si spezza al passaggio:
l’osso è nutrito e tradotto.
La prigioniera
Questa prigione è una pelle.
Parole di solida membra – un pasto di sillabe e insetti
m’invade le mani allungate. Vermi piegati nell’unghia.
Questo corpo fugge via per la forbice oscena delle tende nel sole.
Lo rincorro e lo dico distesa per terra. E lo dico più volte
a me sola parvenza di sguardo veste paese non troppo straniero.
Cerco le tracce sul pavimento. Pillole. Immacolate briciole come una volta
nel bosco. Qualcuno era perso. Le pillole mettono tutto in ordine pulito
mi fanno quieta come un libro chiunque può scriverci un senso.
Io mi conduco di sonno in sonno e di notte non so se mi capita
di abitare la carne di un altro. Poi non c’è proprio niente
e mi sembra sia un bene approdarvi.
Ho paura della pozzanghera – ogni mattina precipito.
Ho paura del buco nel cielo e di chi lo fa piovere e urlare.
L’acqua aggancia ogni casa e l’inghiotte.
Come aghi a spezzarmi a lavarmi via tutta
diluita nel vetro una qualsiasi polvere un pezzo di ruggine.
Perché così tanta acqua e nemmeno una porta da sbattere
Sulle cose feroci che crescono sotto tutt’attorno mi reclamano
esposta alle grida divelta (non posso fermarle mangiarle nel pane)
un rossore storpiato di bestia nuda come il mio nome.
Le bende
A Olive Higgins
(those hard symbolic bones under the skin)
W. B. Yeats
I (I Tre Volti)
La nebbia si leva nei suoi artigli.
Erba contratta in vapori un’attesa
di suoni. Vieni. Togli le bende
dalle mie membra e dal volto.
Non sarò certo Jane la Pazza
né la vecchia filatrice adunca
o la vergine nella sua tomba
con un fiore nelle mani fredde
Ma in un vincolo queste tre donne
mi sospingono a un uovo di carne
nella loro matassa d’amore
mentre il mondo va e viene.
Hanno l’odore dell’acqua. Correnti
sepolte. Considera questi miei seni
come erompono e insidiano l’ombra.
Nettare di un costato cadente –
Il mondo è scheletro e sangue.
II (Il Lupo)
Sul mio corpo di letto e tovaglia
un cannibale trascina la mascella
Le betulle si piegano torbide –
io sto – magra come un’ascia.
Vieni a prendermi
Un taglio nel ferro il sentiero
fino alla bocca e al sudore
legno marcio nel fiume.
Non volevo i tuoi denti
i miei nervi trafitti –
Volevo l’aroma dei fiori secchi
ma so di stivale nel fango.
Ho percorso la lama fin dove
incide fino alla bocca e al sudore.
Non un frammento rimane.
Occhi in un buco d’ossa.
L’oceano la pancia.
Tu sei oscuro come il tempo
dell’anima come il calore
delle notti. Intorno
la linfa è un vortice negli alberi.
Londra, novembre 2002
Edizione esaminata e brevi note
Francesca Matteoni è nata a Pistoia il 25 gennaio 1975. Si è laureata in Storia delle Religioni presso l’Università di Firenze con una tesi su mitologia celtica ed esoterismo nella poesia di William Butler Yeats. Ha completato un dottorato di ricerca in storia moderna presso l’Università dell’Hertfordshire (UK). Ha svolto vari lavori, tra cui assistente di base all’infanzia, pifferaia di strada e insegnante di pattinaggio artistico. Ha esordito nell’antologia Nodo Sottile 2 (Cadmo, 2001) a cura di Vittorio Biagini, Andrea Sirotti e del responsabile dell’Archivio Giovani Artisti di Firenze, Daniele Ciullini. Questi sono i suoi libri di poesia ad oggi: Artico (Crocetti, Milano, 2005) e Appunti dal parco (Wizarts, Ascoli Piceno, 2008). È nella redazione del blog letterario Nazione Indiana, si occupa della rubrica di scrittura della rivista romana <<Metromorfosi>> diretta da Emanuele Kraushaar, e gestisce un blog-ripostiglio.
Francesca Matteoni, Artico, Crocetti, Milano, 2005
Altre recensioni e testi inediti in rete:
A questo punto, considerando i testi che si trovano anche nei siti linkati sopra, credo che si possa fare una bella panoramica di dov’è stata e dove si sta dirigendo la poesia di Francesca.
31 ottobre 2009
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