London Jack

Quel diavolo di John Barleycorn. Memorie di un bevitore

Pubblicato il: 6 Luglio 2014

“Ovunque la vita scorresse libera e grandiosa, gli uomini bevevano. Romanzo e Avventura sembravano sempre in giro a braccetto con John Barleycorn. Per conoscere i primi due, dovevo per forza di cose conoscere il terzo” (pag.49). E da quanto ci ha raccontato Jack London nella sua autobiografia “alcolica”, ovvero le “Memorie di un bevitore” pubblicate per la prima volta nel 1913, questa conoscenza col terzo incomodo è stata molto precoce, altrettanto contrastata ma mai venuta meno se non in periodi di reale solitudine. Chiaramente John Barleycorn, che tradotto dall’inglese significa “chicco d’orzo”, ovvero il cereale dal quale si ricava il whisky e la birra, altri non è che l’antagonista dello scrittore, immaginario nel nome ma del tutto reale nella sostanza: l’alcol che ha accompagnato la vita di Jack London, bevitore riluttante, spesso disgustato, ma sempre alle prese con boccali di birra, vino e whisky scadente e poi, una volta raggiunto il successo, con raffinati e gustosi cocktails. Una riluttanza che cogliamo fin dalle prime pagine, proprio nel leggere il primo incontro di London bambino con John Barleycorn, certo non molto promettente: “Avevo cinque anni la prima volta che mi ubriacai […] Ero così piccolo che, per affrontare il recipiente di birra, mi misi seduto e lo poggiai sulle gambe. Prima succhiai la schiuma. Rimasi deluso. Tuffai la faccia nella schiuma e leccai il liquido che stava sotto. Non era affatto buono. Tuttavia continuai a bere […] Per giunta, la buttai giù come una medicina, con la nauseante fretta di mettere fine al supplizio” (pag.14) Riluttanza per l’alcol che, soprattutto nella prima giovinezza, fatta di lavori precari e faticosissimi, senza dimenticare le sue avventure alla baia di Oakland con i pirati di ostriche, convive con una vicinanza ineluttabile a whisky, birra e quant’altro proprio in relazione al suo bisogno di socializzare e alla necessità di mostrarsi virile e disinvolto tra uomini duri e spesso spietati. Salvo poi diventare un’abitudine più mentale che fisica nel successivo periodo, quando ormai London era diventato uno scrittore ricco e affermato.

E’ probabile che “Memorie di un bevitore”, come scrive Simone Barillari nella “Letteratura americana dal 1900 a oggi”, rappresenti “un’inclemente anamnesi del suo alcolismo” e “ultimo sussulto di fierezza di un talento che si va spegnendo”, ma nel contempo possiamo leggere quest’opera, malgrado l’argomento, anche come esempio felice delle tante contraddizioni di Jack London. La critica ha più volte rilevato come quest’autobiografia alcolica sia stata scritta con l’intento programmatico di sostenere la battaglia proibizionistica allora in corso (il Volstead Act entrò in vigore nel 1919, appena sei anni dopo la pubblicazione dell’opera di London),e del resto lo scrittore non potrebbe essere più esplicito quando mette in mezzo le figure femminili, le madri soprattutto, altrimenti poco presenti durante le scorribande alcoliche e avventurose della sua vita: “Io so che le donne, mogli e madri, voteranno contro John Barleycorn e riusciranno a distruggerlo e a scacciarlo nel limbo della storia insieme alle altre selvagge usanze scomparse” (pag. 217). Ed ancora: “ Nei giorni migliori che verranno, quando John Barleycorn sarà stato bandito dalla nostra esistenza insieme alle altre barbarie, sorgerà qualche altra istituzione al posto della taverna, dove gli estranei potranno incontrarsi, entrare in contatto e conoscersi” (pag. 82). Intento che però non fa di “Memorie di un bevitore” opera intrisa di moralismo. La denuncia, o meglio l’autodenuncia, è coraggiosa, controcorrente, soprattutto in uno scrittore ancora giovane e che aveva raggiunto il successo e la ricchezza a costo di innumerevoli sacrifici; ma – ripetiamolo – London rimane pur sempre il combattente pieno di contraddizioni, lo stesso che voleva in qualche modo conciliare, con la sua opera letteraria e le sue avventure, il socialismo di Marx e il superuomo di Nietzsche. Anche qui è presente la legge del “survival of the fittest”, non fosse altro nei frequenti richiami al suo fisico robusto che gli permise di reggere tremende sbronze, mai realmente volute, e sempre a rischio di un irreversibile coma etilico.

Possiamo quindi interpretare la storia del giovane London e del London scrittore affermato come l’altra faccia del sogno americano, mai davvero rinnegato ma condizionato dall’abitudine sociale all’alcol quale strumento di socializzazione prima e poi, col tempo, causa e medicina per quelle inquietudini che gli fecero pensare anche al suicidio: “Altre volte, più in là, in momenti di tensione nervosa e stanchezza mentale, avrei ricordato e riprovato il bisogno imperioso del sedativo contenuto nell’alcol” (pag. 143). Un condizionamento pesante, ammesso senza remore seppur sempre con l’avvertenza che la sua era piuttosto una vita da bevitore riluttante e involontario che di autentico ubriacone, di quelli che invece amavano davvero il sapore del whisky e della birra, tale da stravolgere “l’originaria bontà e bellezza della loro natura”. Confessione impietosa, pervasa dallo spirito spregiudicato e tenace che molti di noi hanno conosciuto leggendo “Il richiamo della foresta” e “Zanna bianca”, e sempre caratterizzata da uno stile dominato da vitalità e ironia: “Ricordo che, subito dopo la pubblicazione del mio primo libro, fui invitato al Bohemian Club di San Francisco. Ci sedemmo su comode poltrone di pelle e ordinammo da bere. Non avevo mai udito un simile elenco di nomi di liquori e di cocktail a base di scotch. Conoscevo solamente le bevande dei poveri, delle città di marinai e di frontiera – birra scadente e whisky ancora più scadente. Nell’imbarazzo della scelta, ordinai un bicchiere di vino rosso, il che fece quasi svenire il cameriere – vino rosso dopo cena” (pag. 158).  E’ vero che da lì a tre anni, nel 1916, London morirà in circostanze mai veramente chiarite (qualche studioso parla ancora di suicidio), ma quando leggiamo “eppure Martin Eden sono io” (pag. 157) non possiamo non ricordare ancora l’indole avventurosa dello scrittore, spesso incosciente, in lotta con un John Barleycorn descritto come infido, che “fa appello alla debolezze e alla frustrazione”, che “rappresenta la facile via d’uscita” e “non fa che mentire” (pag. 149). Autobiografia, alcolica e impietosa finché si vuole, opera di denuncia sicuramente, svelamento del lato oscuro del sogno americano, ma anche libro che, con tutte le cautele del caso, possiamo leggere alla stregua dei suoi più famosi romanzi d’avventura.

Edizione esaminata e brevi note

Jack London, (San Francisco, 1876-Glen Ellen, 1916) è stato uno degli scrittori americani più popolari di ogni tempo. Autore di romanzi come Il richiamo della foresta, Zanna bianca, Il Lupo di mare, Il tallone di ferro e Martin Eden, morì nel suo ranch californiano, a soli quarant’anni, per cause mai accertate, per le quali si è ipotizzato l’abuso di alcol, l’overdose di antidolorifici e la sifilide.

Jack London, “Quel diavolo di John Barleycorn. Memorie di un bevitore”, Donzelli (collana SuperMele), Roma 2014, pp. 229. Traduzione di Angela Bianchi.

Luca Menichetti. Lankelot, luglio 2014