Sartori Giovanni

Il Sultanato

Pubblicato il: 24 Luglio 2009

Il titolo “Il Sultanato” non deve trarre in inganno: Giovanni Sartori, il decano dei politologi italiani (classe 1924), con questa raccolta di articoli tratti dal Corriere della Sera non ha voluto fare riferimento soltanto al più celebre sultano d’Italia, ovvero il Cav. Silvio Berlusconi.

La quarta di copertina è eloquente: “il livello di soggezione e di degrado intellettuale manifestato da una maggioranza di nostri onorevoli mi spaventa più di tutto. Altro che bipartitismo compiuto. Qui siamo al sultanato”. La raccolta di editoriali spazia dal gennaio 2006 al dicembre 2008 e – giustamente – iniziale oggetto degli strali di Sartori era Prodi e il suo cavanserraglio di quaquaraquà masochisti.
“Giustamente” perché un editorialista che si rispetti non dovrebbe avere remore nel fustigare anche coloro che stanno un gradino sotto i recordmen della corruzione. Sempre indecorosi sono.
Sartori nei suoi editoriali di carne al fuoco ne ha messa veramente tanta, e, capirete bene, non è né facile né probabilmente utile darvene conto in maniera completa; malgrado gli argomenti più gettonati, soprattutto nelle prime cento pagine, siano le leggi elettorali, l’architettura dello Stato e del Governo. A grandi linee possiamo rilevare alcune costanti, dove i pregi e i limiti dell’accademico si fanno chiaramente sentire. Innanzitutto l’interpretazione autentica del titolo in una prefazione particolarmente efficace quanto a chiarezza espositiva: «il dittatore del secolo scorso eliminava platealmente le camere elettive e istituiva scopertamente strutture di comando a suo uso e consumo. Oggi invece il dittatore si infiltra gradualmente e senza troppo parere nelle istituzioni democratiche preesistenti e le svuota dall’interno. Una prima incarnazione di questa strategia furono le democrazie popolari inventate nel secondo dopoguerra dal Cremlino….» (pag. VII).

E poi – guarda caso – il discorso cade su un Cavaliere che «sultaneggia su un partito cartaceo prostrato ai suoi piedi. Non manca nel suo governo nemmeno un gradevole harem di belle donne» (nei giorni di “Papi” la cosa acquista un sapore tutt’altro che paradossale). Paradossale, almeno per chi ha della politica una visione rigorosamente geometrica di destra-sinistra, potrebbe altresì apparire l’accostamento tra i regimi dell’Est e il Cavaliere, baluardo dell’anticomunismo; a comunismo caduto. Tant’è, come anticipato, le prime cento pagine riguardano gli editoriali scritti nel periodo in cui Prodi, da par suo, galleggiava pacioso mentre la sinistra si suicidava facendo opposizione a se stessa. E’ qui che il Sartori politologo sguazza con gusto, polemizzando con i “nanetti” (i piccoli partiti)  e non solo: «Il punto è che il bipolarismo all’italiana è una costruzione del tutto artificiale, artificiosa che si ascrive soprattutto alla formidabile ostinazione di Prodi» (pag. 67). Sartori si spiega meglio in «Gli equivoci di un bipolarismo insensato»: «il bipolarismo è fisiologico in tutte le democrazie “normali” e che non dipende, come sostiene la vulgata, dal sistema elettorale» (pag. 87); «il bipolarismo inventato da Prodi – e lietamente sfruttato da Berlusconi – è un bipolarismo insensato. Il bipolarismo che funziona (e richiesto dal sistema parlamentare) deve essere flessibile e capace di autocorrezioni. Invece Prodi teorizza e pratica un bipolarismo rigido e cementificato, nel quale è poi doverosamente rimasto imbottigliato».
Questo intervento, peraltro di facile evidenza (ma in Italia l’ovvio non è mai tale), confesso che mi è molto piaciuto: da anni, polemizzando pesantemente con militanti di ogni colore, sostengo che questo bipolarismo interpretato come dogma è una delle ragioni dell’appecoronamento della sinistra nei confronti di Berlusconi (vedi quindici anni di impunità, le leggi ad personam mai abrogate).
Avversari politici, a volte nemici, quasi sempre compari, che avevano e hanno bisogno l’uno dell’altro per legittimare il proprio potere. Tornando al nostro “Sultanato”, Sartori, soprattutto negli editoriali del 2008, ci propone alcuni argomenti (i pericoli del federalismo, le incognite del Partito Democratico, “le elezioni idilliache volute e pesantemente perse da Veltroni”, le omertà verso la mafia, la bioetica), questa volta meno legati alla materiale elettorale, che ci fanno apparire il nostro decano dei politologi forse di cultura liberalconservatrice (così l’opinione comune su di lui) ma di sicuro di una razza del tutto eterodossa con la sua attenzione all’ambiente e col suo schietto anticlericalismo.
Insomma qui più che conservatorismo o liberalismo declinato senza troppi dogmi, appare semmai una buona dose di spirito toscano, polemico e sarcastico.

Facciamo alcuni esempi.
Una risposta ad un Vittorio Feltri in vena di complottismo: «non sono mai stato in contatto con i cosiddetti “poteri forti”, ammesso che io sappia (ma non lo so) chi siano» (pag. 118).
E’ vero: ognuno, a destra e a sinistra, ha i suoi “poteri forti” preferiti, buoni a tutti gli usi, soprattutto quando non si sa che pesci pigliare, ma pochi ci raccontano in dettaglio chi siano e cosa facciano. Poi qualche spunto facilmente profetico (aprile 2008): «Alle regioni ricche piace l’idea che ognuno abbia diritto di tenere i soldi che fa. Il che prelude ad uno scontro con la lega siciliana in pectore di Raffaele Lombardo» (pag. 120).
Una stoccata da un “conservatore” ad un altro “conservatore” ma della versione “neo-con”: (in relazione al deterioramento dei rapporti tra gli Stati Uniti e la Russia: n.d.r.) «per i meno, che mi includono, la colpa è invece soprattutto di Bush e dell’ideologismo democratico che imperversa nell’altrettanto imperversante contesto del politicamente corretto; l’acume di Bush mi è sempre sfuggito» (pag. 132). Sulla cecità degli economisti (e sulla crisi finanziaria): «A suo tempo scrivevo che un vuoto di regole non toglie che dobbiamo avere regole. Anzi, oggi le regole ridiventano più necessarie che mai. Le banche non sono libere di fallire a danno dei loro depositanti» (pag. 136). Tutto questo detto da un politologo che non ha mai fatto mistero di avere fiducia (ma non fede assoluta) nel cosiddetto mercato e con una sensibilità distante da quella di coloro che fanno della pianificazione e dell’intervento dello Stato il proprio credo. Fin qui molto può apparire anche banale (le citazioni non rendono comunque merito). Meno banale se pensiamo al contesto degli editoriali, ovvero quel Corriere ormai infestato da gente come Ostellino, Panebianco, Battista; i quali, con articoli surreali, da anni dispensano la vulgata del paese normale, minacciato semmai da quegli estremisti che osano fare (addirittura!) opposizione democratica al governo (di centrodestra) e da quei massimalisti che (addirittura!) si mostrano intransigenti nel campo della legalità.
Le ultime pagine, quelle che meglio chiariscono il perché del titolo, ripropongono un saggio “Il conflitto d’interessi” che era già stato pubblicato in “Il governo Berlusconi: le parole, i fatti, i rischi” (Laterza, 2002), coerentemente ribattezzato “Alle origini del Sultanato”.
Qui Sartori, abbandonata la brevità dell’editoriale, utile al più come spunto di riflessione e mai al riparo dall’ovvio (ma – ripetiamo – in Italia, l’ovvietà, a volte è un oggetto misterioso), ha potuto esprimersi con la compiutezza dello studioso (anche lo stile è diverso e meno sbrigativo) nello spiegarci il trappolone e l’inefficacia del blid trust applicato al Berlusconi premier e padrone di un impero mediatico. L’analisi – ovviamente – è anche politica: «il fatto è che Berlusconi sempre più massicciamente condiziona o controlla gli strumenti di comunicazione di massa e di formazione dell’opinione del paese. Il che significa che Berlusconi è in grado di dominare e manipolare quel consenso politico al quale dovrebbe invece sottostare» (pag. 151); con buona pace dei colleghi come Panebianco, secondo i quali le vittorie elettorali della sinistra dimostrerebbero l’inesistenza di qualsivoglia influenza mediatica tale da condizionare i cittadini. Bisogna intendersi sulle parole e non prenderci in giro con evidenti sofismi: è vero che la posizione di Sartori e dei temibili antiberlusconiani prefigura un regime “soft”, condizionante, ma per fortuna non un’Italia completamente allineata ai desiderata del presidente del consiglio (di amministrazione).
Continua Sartori, proprio al termine del saggio e senza lesinare critiche a Ciampi che poi promulgò la legge 215/2004 (ricordiamo lo scritto è del 2002): «L’Italia è oramai una democrazia in bilico, insidiata dall’eccesso e dall’abuso di potere. Perché il regime berlusconiano sta violando di fatto, e addirittura violerà al coperto del diritto (con la legge Frattini), tutti i principi fondamentali dello Stato di Diritto: a) che il controllato non può essere il controllore; b) che gli interessi privati non possono essere tutelati da atti d’ufficio; c) che i media che formano l’opinione pubblica debbono essere adeguatamente pluralistici; d) che il mercato non deve essere dominato dalla collusione tra politica e affari; e) che ogni potere deve essere limitato da altri poteri, da contropoteri…..» (pag. 163). Come dicevo prima: se per replicare agli argomenti di alcuni giuristi ed editorialisti a cottimo, anche uno studioso come Sartori ha dovuto ribadire certe ovvietà, viene il sospetto che siamo messi proprio male. Anzi, più di un sospetto.

Edizione esaminata e brevi note

Giovanni Sartori è nato a Firenze nel 1924. Nel 1946 si è laureato in Scienze Politiche all’Università di Firenze, dove alcuni anni più tardi è stato professore di Storia della Filosofia Moderna, Scienza della Politica e Sociologia.
Esperto in Politica Comparata, insignito di otto lauree honoris causa, attualmente è Albert Schweitzer Professor Emeritus in the Humanities, Columbia University, New York (dal 1994); nel 2005 ha ricevuto il Premio Principe delle Asturie per le scienze sociali dalla Fundación Príncipe de Asturias.
Tra le sue opere: “Parties and Party Systems”, “The Theory of Democracy Revisited”, “Ingegneria Costituzionale Comparata “, “Mala costituzione e altri malanni”, “Homo videns. Televisione e post-pensiero”.

Giovanni Sartori, Il Sultanato, Laterza, Bari 2009, pag. 172

Questa recensione è stata precedentemente pubblicata su ciao.it il 24 luglio 2009 e qui parzialmente modificata.

Luca Menichetti. Lankelot, luglio 2009