Miorandi Paolo

L’unica notte che abbiamo

Pubblicato il: 10 Maggio 2020

Qualche mese fa, Paolo Miorandi è tornato in libreria, sempre per i tipi di Exòrma, con L’unica notte che abbiamo, un’opera che dà voce a molti protagonisti di un’unica vicenda umana: tutti un po’ si somigliano, ma i fili di diverso colore delle esistenze si intrecciano – in un solo modo – a formare la trama che scorre sotto gli occhi. Narrare una storia da svariati punti di osservazione era stato anche l’espediente in parte utilizzato nel precedente Verso il bianco, là dove tutta la vita di Robert Walser veniva sì raccontata da chi ne aveva fatto oggetto di ricerca,  ma, a mo’ di intermezzo, anche da chi lo aveva conosciuto. Troviamo altre similitudini (la centralità delle fotografie, l’introspezione psicologica che sfiora la dissezione chirurgica) a conferma di uno stile originale e davvero interessante.

Nell’Unica notte le voci si susseguono, si accavallano, si confondono come le fotografie in bianco e nero che una vecchia signora esamina per ricostruire il proprio passato familiare, condividendole con un coinquilino, durante le visite settimanali di questo depositario scelto della sua storia.

Il vicino non ha alcuna influenza sulla vicenda, ma da essa resta in qualche modo coinvolto, divenendo il collettore delle confidenze, dei racconti, dei ricordi della donna. La sua storia personale apre in corsivo ogni capitolo, sino alla fine, quando il protagonista vero diventa, sebbene per poco, lui. Abbiamo pochissimi flash personali dell’uomo: l’abbandono della carriera di docente grazie a un’eredità inattesa, sporadici incontri – con un collega, con una donna – piccole attività quotidiane, la notizia di un viaggio in cui l’eredità ricevuta è stata sperperata. L’attenzione è tutta sul “resoconto” delle vicende e sulla “camera bianca” che più che un locale del suo appartamento è un luogo della sua memoria, tuttora abitato, da cui non sa né vuole allontanarsi. Si anima, questo luogo misterioso, soprattutto durante le ore notturne, e riporta voci, immagini, suoni che non ci vengono mostrati chiaramente perché c’è già tutta la storia “parallela” a riempire la mente, e il narratore resta solo “custode notturno” che a fine turno redige il rapporto, custode di voci e storie, così come, egli sospetta, accade di essere a molti.

La storia di famiglia dell’anziana, ripercorsa in un ordine solo per sommi capi cronologico, inizia da una giovane contadina che per sfuggire alla vita grama della casa natale, finisce a farne una forse peggiore nel locale di una zona transfrontaliera, dove subisce le attenzioni del figlio del padrone, partorisce due figli, e, persa anche la parvenza di una protezione alla partenza del padre dei bambini per l’Argentina, li abbandona per tirare avanti. Li alleveranno le maestre dell’unica scuola, due donne assai diverse, sole, che rappresenteranno l’unico modello familiare per i due fratellini. Meno interessata alle vicende del maggiore, l‘anziana vicina è tutta concentrata sulla storia di suo padre, il figlio minore, che dopo il ritorno dall’esperienza devastante della campagna di Russia, sposa una ragazzetta malinconica arrivata (in quelle emigrazioni di ritorno di tanta parte del nostro Paese) dalla Francia, che non sarà mai capace di essere né moglie né madre, destino comune alle donne di questa famiglia al di là dei legami di sangue.

Ognuno dei personaggi è protagonista, voce narrante, interlocutore. La scelta è disorientante in un primo momento, poi piano piano la nebbia si dirada e comprendiamo di chi è quella voce, a che fatto si riferisce. La stessa vicenda viene narrata da tutte le parti in causa, prendendo le mosse dalle vecchie fotografie sparse sul tavolo. Si tratta di monologhi, spesso intrecciati a quelli degli altri, ognuno vuole emergere, dire la sua, senza ascoltare né capire però le altre voci.

Le vite di queste donne e di questi uomini richiamano molte esistenze simili, ognuna con la propria verità, ognuna ferita senza meritarlo, senza averne colpa. L’eco è quasi verghiana: se nasci in un certo contesto, difficilmente ti liberi di esso o dalla sua influenza. Non ci sono persone buone e persone cattive, perché tutti i vizi, tutte le mancanze, o gli spigoli nel carattere, sono il frutto di esperienze di privazione (degli affetti, di una stabilità economica, di possibilità).

Il paesaggio umano qui è molto meno pittoresco della zona geografica che si può appena intuire e che viene in ogni caso descritta come aspra, ventosa, difficile. Neppure il lago mitiga il clima. Le sue sono acque scure, melmose, forse poco baciate da un sole avaro, a lungo nascosto dalle nuvole addossate alle vicine montagne. Le persone sono diffidenti e grette, bigotte ed egoiste. Non ne hanno colpa, ma scaricano sulla discendenza lo stesso pessimismo e le stesse meschinità di cui sono state vittime innocenti.

Questa atmosfera opprimente permea un po’ tutto il libro, ma è soprattutto con l’approfondimento delle singole storie che assume i tratti della gabbia [cella di carta, dirà l’Autore] in cui ciascuno è chiuso, senza possibilità di uscirne, forse mai. Perché la morte, alla fine, non libera davvero, ma costringe le anime, pur private ormai del corpo (in un processo quasi sempre di lenta e inesorabile decomposizione che ha inizio molto prima di quella naturale), a farsi presenti, a parlare o a bisbigliare senza essere udite, a camminare di continuo senza direzione, a cercare qualcosa con occhi vuoti. L’impressione è che questo fluire eterno non abbia una méta, un punto di arrivo, un riposo. La suggestione che tutte le voci narranti, compresi i due vicini di casa, siano semplicemente parte di questa folla indistinta, coglie inesorabilmente chi legge.

La storia di ciascuno, una volta vissuta, si fa eco lontana: l’abbiamo forse raccolta, messa per iscritto e fatta conoscere. Siamo stati spettatori delle fatiche e finanche del disgusto di certe esistenze, dell’anelito a chiudere una vicenda terrena dolorosa per trovare finalmente pace.

E scopriamo (fin dal principio, ma lo capiremo poi) che nessuna pace ci attende. Mettere in ordine vecchie foto non sempre consente di deporre le armi. Le domande senza risposta saranno le compagne di un viaggio senza fine.

È l’unica, eterna, notte che abbiamo.

In piedi davanti alla finestra guardo l’intreccio di strade che si apre sotto di me, è l’unica notte che abbiamo, un arabesco fatto di buio e luci tremolanti, che ci sparpaglia e ci raccoglie, sento i miei passi allontanarsi nel tempo quietato del corridoio, le nostre voci, penso, la distanza che ci unisce […]. Un ventaglio di anime, ognuna nella propria cella di carta, i bordi dentellati che si sfiorano, un bisbigliare di voci; nel gesto compiuto, con studiata misura o nella distrazione del momento, nello sguardo rivolto a un altro sguardo – che in fondo è sempre una domanda – si deposita per intero una vita… [p.239]

 

Edizione esaminata e brevi note

Paolo Miorandi, scrittore e psicoterapeuta, è nato e vive a Rovereto in Trentino. Ha pubblicato: Un viaggio in Cile (2003);  Ospiti (2010); Nannetti (2012) da cui è stato tratto il cortometraggio Libro di sabbia, realizzato con il regista Lucio Fiorentino che è stato premiato come miglior documentario al Procida Film Festival 2013 e ha ottenuto il Premio Franco Santaniello; Lessico di Hiroshima (2015) portato in scena con le musiche originali composte da Roberto Conz [dal sito dell’Editore]. Nel 2019 ha pubblicato con Exòrma Verso il bianco: diario di viaggio sulle orme di Robert Walser.

Paolo MiorandiL’unica notte che abbiamo, Exòrma, Roma, 2020. pp. 249

Ilde Menis. Lankenauta, maggio 2020