Stojanović Saša

Var

Pubblicato il: 25 Marzo 2016

“Credete forse che io non sappia che razza di deficienti conduce in rovina questo paese? Aspettavo solo voi che me lo sareste venuto a dire con l’uranio e con volantini colorati. Grazie mille per l’aiuto, la spiegazione è stata esaustiva e chiara” (pp.197). Chi parla è Čarli, l’alter ego di Saša Stojanović, secondo quanto riferito da una delle innumerevoli voci narranti – pare siano circa una trentina – presenti in “Var”. Parole che da un lato evidenziano quei toni sarcastici che ricorrono frequentemente per tutto il romanzo; e dall’altro lato un atteggiamento di radicale estraneità alle ragioni dei contrapposti schieramenti: la denuncia dei crimini commessi dal regime di Milosevic non contraddice la repulsione per l’ottusa scelleratezza degli eserciti occidentali e della loro condotta in guerra. Proprio questa estraneità alla propaganda sia della Nato sia del governo nazional-comunista, e quindi alla presunta razionalità dei belligeranti, ha consentito a Stojanović di svelare senza alcuna remora l’unica verità possibile sulla guerra in Kosovo: un susseguirsi allucinato di crimini e follia. Anche pretesti narrativi e le allusioni scelte dall’autore potranno risultare spiazzanti e di non immediata comprensione: in “Var”, tanto per capirci, un ruolo sostanziale è riservato alla simbologia dei numeri e a citazioni di classici della letteratura. Anche il Vangelo viene tirato in ballo da Stojanović ma in maniera del tutto eterodossa: Matteo, Marco, Maria di Màgdala, Luca, Giuda e Giovanni, ovvero gli evangelisti ufficiali e quelli apocrifi, si ritrovano alle prese con innumerevoli testimoni di questo massacro balcanico. Tutte voci narranti che, raccontando le proprie e le altrui disgrazie, hanno avuto a che fare con il già ricordato Čarli. Questi è un veterinario, arruolato come infermiere, per lo più descritto come un ciccione, che ha lasciato a casa una moglie incinta e che ora si presenta i superiori e ai commilitoni con improbabili scarpe ginnastica gialle, sempre irascibile, provocatorio, sboccato, ben intenzionato a trasgredire ogni regola piuttosto che a combattere contro un esercito nemico (“perfino la morte mi ha lasciato perdere quando mi ha visto così matto”).

Una trasgressione necessaria di fronte ad uno stravolgimento di logica e di morale che ha prodotto una valanga di crimini e di sadismi gratuiti. Čarli alla fine se la caverà grazie ad un inevitabile congedo per infermità mentale – anche Stojanović fu rimandato a casa prima della fine della guerra a causa di un disturbo da stress post traumatico – e Giovanni, l’evangelista, metterà un’ideale e impossibile parola fine alla guerra: “è giunta l’ora di congedarci dal sarcofago in cui seppellire i milioni dei nostri sia immaginari che reali ricordi” (pp. 510). Così, proprio al termine della narrazione, come ricorda la traduttrice, si coglie l’autentico significato della parola “Var”, intesa non come guerra ma come “saldatura”, capacità di sopportare il peso di quanto accaduto e magari di dimenticare. L’elemento autobiografico presente nel romanzo è quindi riconoscibile non soltanto in relazione all’alter ego Čarli ma anche dal lato più strettamente stilistico: pagine che hanno visto la luce all’indomani del congedo e che per oltre nove anni hanno accompagnato lo scrittore come in un percorso catartico. Una genesi a dir poco sofferta e che probabilmente chiarisce perché il romanzo proceda, di capitolo in capitolo, con un linguaggio allucinato e magmatico, reso ancor più complesso ed enigmatico, se non proprio inintelligibile, in virtù degli innumerevoli e sfuggenti narratori che si rispecchiano in Čarli. Sotto questo aspetto si comprende perché Anita Vulco, la traduttrice, abbia impiegato quasi tre anni a concludere il suo lavoro: la difficoltà di decifrare tanti linguaggi quanti sono i personaggi deliranti che osservano le pazzie di Čarli, dai dialetti della Serbia, a quelli dei kosovari, allo slang dei bassifondi. Per di più alla babele linguistica si aggiungono le frequenti onomatopee – ad esempio l’allungamento di vocali – come voler mettere in primo piano il precario equilibrio mentale di coloro che, urlando e sibilando, sono stati trascinati nella guerra balcanica e poi sono stati ridotti a pura carne da macello: da questi personaggi, a volte autentici criminali, un susseguirsi di monologhi sparati quasi senza respiro, tra flussi di coscienza, alternarsi di citazioni colte e linguaggio parlato, intercalare di oscenità che, a volte risolte da inaspettati spiragli di speranza e solidarietà umana, introducono per lo più situazioni brutali e deliri psicotici. Una narrazione che, proprio perché estrema e allucinata, non è da considerarsi circoscritta al solo contesto balcanico: si coglie un respiro più universale, riferito piuttosto alla generalità delle insensatezze umane; tanto da far recitare all’evangelista Giovanni, che pure avrebbe dovuto predicare ben altro, una formula a dir poco improbabile: “Più velocemente vi dimenticate di tutto quanto e prima per voi la vita potrà ricominciare” (pp.510).

Edizione esaminata e brevi note

Saša Stojanović, (1965) scrittore serbo. Laureato in medicina, è ideatore e direttore di “Think Tank Town” e di “Think-Tank (tra le più importanti riviste letterarie serbe). Ha pubblicato fino ad ora cinque romanzi: “Krvoslednici” (2003); “Manchester City Blues” (2006); “Var” (2008); “Poslednji dan boga Saturna” (2013), Put za Jerihon” (2015). E’ anche autore di numerosi racconti premiati in Serbia e all’estero: ricordiamo la raccolta “Tačke topljenja” (2011).

Saša Stojanović, “Var”, Ensemble (collana Échos), Roma 2015, pp. 514. Traduzione di Anita Vuco.

Luca Menichetti. Lankelot, marzo 2016