Verdi Giuseppe, Gavazzeni Gianandrea

Simon Boccanegra

Pubblicato il: 29 Aprile 2007

Tradimenti, agnizioni, vendette, rapimenti, assassinii, lo sappiamo bene, sono gli ingredienti più tipici del teatro romantico; almeno nel sentire comune.
A questo schema apparentemente non si sottrae neppure il Simon Boccanegra, tratto, come il più noto Trovatore, da un dramma di Antonio Garcia Gutierrez; ma il nostro Giuseppe Verdi negli anni cinquanta del XIX secolo (la prima edizione del Simone è del 1857) era tutto preso da uno spirito di sperimentatore e di conseguenza l’articolazione tradizionale del melodramma italiano (un soprano ed un tenore che si amano, un baritono antagonista, spesso cattivo o geloso, ed un basso quale figura paterna) probabilmente non la sentiva più adeguata al suo estro compositivo.
La vicenda tortuosa, oscura, che contribuisce a sfatare il luogo comune del Trovatore quale opera simbolo delle trame operistiche, farraginose e piene di contraddizioni logiche, vive soprattutto di motivi quali lo scontro tra la sfera pubblica e privata, del loro perenne intrecciarsi nei conflitti che insorgono, ed in cui il protagonista, Simone, che si trova suo malgrado ai vertici del potere, profondamente scosso nei sentimenti privati, fa del buongoverno la sua missione, di chi va “gridando pace e amore” e che morirà nel segno della ricomposizione degli affetti.
L’opera, che subì forse la più radicale revisione tra le partiture verdiane, grazie al parziale intervento di Boito negli anni 1880-81 (il contributo del librettista nella seconda versione, sul povero corpo letterario di Piave, “un tavolino zoppo”, secondo alcuni critici non risultò particolarmente incisivo), risolve soprattutto sul piano musicale, la tinta cupa degli eventi, a partire proprio dalla scelta dei registri vocali che – fatta eccezione per Amelia soprano e per Gabriele Adorno tenore – sono tutti affidati a voci gravi, baritoni e bassi; e dalla scelta del colore orchestrale, nel quale prevalgono i timbri gravi ed oscuri degli archi e dei fiati: definibile come “opera al maschile”, in cui l’elemento amoroso e le contese per una donna passano nettamente in secondo piano.
Inoltre nella partitura del Simon Boccanegra vi è una netta prevalenza delle sezioni aperte, più di declamato che di recitativo; caratteristiche che, se soprattutto dagli anni ’30 dello scorso secolo, ne consentirono un rinnovato interesse da parte della critica più lungimirante, non lo resero certo melodramma tra i più popolari: Simone non ha un’aria vera e propria né una romanza, ma solo un arioso nella scena del Senato (“Plebe, Patrizi, popolo..”), e due monologhi nel secondo e nel terzo atto; inoltre solo due romanze appannaggio degli altri protagonisti: una cavatina per Amelia, un’aria per Gabriele, più un arioso per Fiesco (“Il lacerato spirto”), molti duetti, ma con prevalenza del declamato là dove è presente il protagonista.
La chiave di lettura dell’opera la potremmo sintetizzare nel suo messaggio civile, malgrado
l’argomento politico, in Verdi, compaia, scompaia come un fiume carsico: la volontà è quella di superare le faziosità e le miopie di una concezione meramente localistica, per intendere invece l’unità nazionale come un bene cui il paese intero deve tendere; la perorazione di Simone, “Plebe, patrizi, popolo dalla feroce istoria”, è direttamente rivolta ad un’Italia in cui il particolare ha da sempre il sopravvento, oggi come allora.
Simon Boccanegra è teatro in musica, poco disponibile a blandire e consolare, teso invece a dipingere la sconfitta della parte migliore: torna in mente il motto degli hidalgos spagnoli “la sconfitta è il blasone dell’anima bennata”.
Nel testo di Garcia Gutierrez, poi ripreso da Piave e da Boito, si narra della vicenda di Simone, corsaro al servizio della repubblica genovese che, in un tempo di lotte tra “patrizi e plebei” diviene Doge grazie all’appoggio del partito popolare ed in particolare di Paolo Albiani, filatore d’oro e del popolano Pietro.
Simone, inizialmente, alla proposta di assumere la carica suprema è riluttante, ma poi, quando Paolo lo fa riflettere sul fatto che il nobile ]acopo Fiesco non potrà più negargli la mano dell’amata figlia Maria, adesso tenuta prigioniera nel palazzo dei Fieschi, accetta.
Simone implora il perdono di Fiesco ed il suo consenso alle nozze con Maria, dalla quale ha avuto una figlia; ma la risposta di Fiesco non lascia speranze: lui non perdonerà mai l’affronto fatto all’onore della nobile famiglia a meno che Simone non gli consegni la nipote, nata dalla relazione clandestina.
Un desiderio che Simone non potrà esaudire perché la bambina è stata rapita dopo l’improvvisa morte della nutrice ed è scomparsa.
Simone, pieno di odio e dolore, si reca al palazzo dei Fieschi, ed, ignaro, entra per rivedere la donna amata: la troverà morta proprio nel momento in cui il popolo si aduna in piazza e plaude la sua elezione a Doge.
Passano gli anni e la scena si sposta nel giardino di Palazzo Grimaldi: Amelia attende Gabriele Adorno, l’uomo che ama e che, insieme con altri nobili, cospira contro Simone.
La ragazza è stata adottata da Andrea Grimaldi, sotto le cui spoglie si cela Jacopo Fiesco: Amelia, una trovatella, fin da piccola, sostituì la vera figlia di Andrea, defunta: se non ci fosse stato un erede, il nuovo Doge, nella mente dello spietato Jacopo, si sarebbe impossessato delle ricchezze dei fuorusciti Grimaldi.
La vicenda avrà il suo epilogo, dopo il riconoscimento tra Amelia e Simone, padre e figlia, e col tradimento del rappresentante della parte popolare, Paolo Albiani, anch’egli bramoso di possedere la figlia del Doge; l’antico sostenitore di parte popolare tenterà invano di far rapire la ragazza, ma nel tumulto che ne seguirà, con i patrizi e plebei che si accusano a vicenda, sarà ancora Simone a pacificare le parti in lotta ed inducendo l’Albiani, di cui ha ben compreso la colpevolezza, a maledire il responsabile del fallito rapimento; ovvero a maledire sè stesso.
Paolo ormai scoperto e condannato, prima di essere tratto al patibolo avvelena il Doge ed informa un inorridito Fiesco, il patrizio incapace di perdonare l’antico affronto, ma pur sempre in possesso di animo nobile e leale anche nei confronti dell’acerrimo nemico; il Doge muore tra le braccia della figlia, riconciliato non solo con Gabriele Adorno, che ha finalmente compreso il vero sentimento che lega la donna amata a Simone, ma anche con il suo rivale Fiesco, che  ha compreso l’inutilità del suo odio. Il “Simon Boccanegra”, melodramma cupo e volutamente triste, avaro di grandi arie, trova nell’edizione diretta da Gavazzeni, che già negli anni ’30, nelle vesti di critico musicale, aveva contribuito ad una rinnovata considerazione per l’opera, un’interprete di tutto rispetto, nonostante alcune scelte forse discutibili, quali il suo orientarsi, almeno in alcuni passaggi dell’opera, verso una pateticità dal carattere quasi donizettiano, dei brani che non vanno oltre un elegante e superficiale descrittivismo, ed altri staccati con tempi parecchio rapidi (il finale).
Il protagonista, Piero Cappuccilli, che da lì a quattro anni, riuscì a ripetersi e a superarsi con Claudio Abbado, dimostra come sempre una straordinaria robustezza vocale, magari privo di particolari raffinatezze, uso cantare sempre sul forte, ma probabilmente ineguagliato Simone dei nostri giorni.
Tito Gobbi ed anche Silveri, Milnes, Bruson, Nucci, sono stati famosi interpreti del Doge, ma proprio in virtù della citata edizione scaligera con Abbado, Cappuccilli più di altri è stato identificato nel ruolo.
Il Placido Domingo di oltre trent’anni fa mostrava un colore più leggero ma già dotato di quella morbidezza, omogeneità d’emissione e brunitura che lo porteranno poi a sfiorare ruoli baritonali.
Katia Ricciarelli era nella prima fase della carriera ed in questa interpretazione di Amelia gioca tutte le sue carte con lo sfoggio della sua musicalità e bellezza timbrica, mentre pare avere qualche difficoltà nel registro più acuto (le viene in soccorso più volte Gavazzeni, non a caso, alla Scala, soprannominato “tagliator cortese”, grazie ad amputazioni di parti impervie della partitura).
Ruggero Raimondi, come spesso gli accadeva e gli accade, indulge un po’ in effetti demoniaci, e non nasconde un timbro sicuramente bello ma un po’ leggero, forse un po’ troppo baritonale per un ruolo come quello di Fiesco; in compenso quel vezzo di “russeggiare”, che gli ha valso il soprannome irrispettoso, ma non del tutto gratuito, di “ba-bau”, e nato forse dall’esigenza di ingrandire quei suoni gravi che non possedeva in natura, in questa edizione del Boccanegra non mi pare sia particolarmente evidente.
Molto bravo anche Giampiero Mastromei, come Paolo Albiani, una sorta di precursore di Jago, che, nella sua scena dal secondo atto (“Me stesso ho maledetto”) non fa rimpiangere l’ascolto di baritoni come Monachesi, Valdengo e Van Dam, già interpreti del filatore genovese.
Della celebratissima edizione diretta da Abbado del 1977, e probabilmente ancora insuperata quanto a resa artistica, al momento possiedo soltanto una selezione: motivo per cui ho scelto di segnalarvi in alternativa questa incisione della Rca, sicuramente non priva di limiti ed ombre ma anche di innegabili pregi; senza contare il prezzo irrisorio proprio dell’edizione economica

Edizione esaminata e brevi note

Simon Boccanegra – P. Cappuccilli, R. Raimondi, K. Ricciarelli, P. Domingo, G.P. Mastromei – dir. Gianadrea Gavazzeni; coro ed orchestra della Rca – 2 Cd – Rca (1973);

Alcune versioni alternative:
– Int. P. Silveri, M. Petri, A. Stella, C. Bergonzi, W. Monachesi; Dir. F. Molinari Pradelli; coro e orchestra della Rai di Roma – 2 Cd – Fonit Cetra (1951);
– Int. T. Gobbi, B. Christoff, V. de los Angeles, G. Campora, W. Monachesi ; Dir. G. Santini : coro e orchestra dell’Opera di Roma – 2 Cd – Emi (1957) ;
– Int. F. Guarrera, G. Tozzi, Z. Milanov, C. Bergonzi, E. Flagello; Dir. D. Mitropoulus; coro e orchestra del Metropolitan – 2 Cd – Memories (1960);
– Int. W. Eberhard, N. Ghiarouv, J. Gundula, C. Cossutta; Dir. J. Krips; coro e orchestra della Staatsoper di Vienna – 2 cd – Myto (1969);
– Int. M. Zanasi, R. Raimondi, M. Chiara, N. Martinucci; Dir. A. Votto; coro e orchestra del Teatro La Fenice – 2 Cd – Mondo Musica (1970);
– Int. P. Cappuccilli, N. Ghiaruov, M. Freni, J. Carreras. J. Van Dam: Dir. C. Abbado; coro e orchestra del Teatro alla Scala – 2 cd – D.G. (1977);
– Int. R. Bruson, R. Raimondi, K. Ricciarelli, V. Luchetrti, F. Schiavi; Dir. C. Abbado, coro e orchestra della Staatsoper di Vienna – 2 Cd – Rca (1984);
– Int. L. Nucci, P. Burchuladze, K. Te-Kanawa, G. Aragall, P. Coni; Dir. G. Solti; coro e orchestra del Teatro alla Scala – 2 Cd – Decca (1988);
– Int. J. Van Dam, D. Pittsinger, N. Gustafson, A. Cupido, W. Stone; Dir. S. Cambreling; coro e orchestra del Teatro de la Monnaie – 2 Cd – Ricercar (1990);
– Int. R. Bruson, R. Scandiuzzi, M. Nicolesco, G. Sabbatici, A. Rinaldi; Dir. R. Paternostro; coro Nikkai, orchestra sinfonica di Tokio – 2 Cd – Capriccio (1992);
– (versione del 1857) Int. V. Vitelli, N. Mijalovic, A. Raspagliosi, M. Warren; Dir. R. Palumbo; orchestra internazionale d’Italia – 2 Cd – Dynamic (1999).

Luca Menichetti. Lankelot, 29 aprile 2007.

Recensione precedentemente pubblicata su ciao.it