Castle William

Cinque corpi senza testa

Pubblicato il: 15 Ottobre 2006

Chi non ama le facili definizioni si troverà in difficoltà nel giudicare “Cinque corpi senza testa”, opera di medio livello, con aspetti anche pacchiani, datati, ma sicuramente non catalogabile nel novero del trash più autentico.
Tra il 1964, anno di uscita del film, e i giorni nostri, da un lato abbiamo conosciuto la critica più paludata, quella che giudicava le opere di William Castle con un certo disprezzo, dall’altro lato abbiamo assistito, a volte con sconcerto, ad un fiorire di produzioni talmente mostruose nella loro bruttezza da diventare oggetto di culto masochistico: tutti elementi che adesso ci fanno valutare con maggiore consapevolezza pellicole come “Cinque corpi senza testa”, di certo non assimilabili a film come quelli diretti da un Joe d’Amato (Aristide Massaccesi) o da un Jesus Franco, peraltro considerati non privi di professionalità nella loro pochezza di mezzi e di scrittura.
Agli occhi degli spettatori odierni, sicuramente smaliziati anche se spesso intorpiditi davanti ad uno schermo che dispensa banalità in serie, “Strait-Jacket” (camicia di forza), titolo originale e più coerente, potrebbe non riservare troppe sorprese; non fosse altro che quel tipo di epilogo a sorpresa negli anni a venire è stato più volte replicato in produzioni più o meno “trash”: in altri termini una sorpresa che, dopo tanti film-cloni, potrebbe non risultare tale.
L’incipit è sanguinoso: Lucy Harbin (una Joan Crawford nelle improbabile vesti di una ventinovenne) scopre a letto il marito con l’amante ed impazzita, sotto gli occhi della figlia Carol, afferra un’ascia, con urla belluine si lancia contro la coppia di fedifraghi e li decapita.
Vent’anni dopo Lucy esce dal manicomio e torna a vivere con la figlia, intanto cresciuta e diventata una donna anatomicamente molto gradevole (Diane Baker).
La lunga reclusione non ha fiaccato lo spirito della donna che, nonostante l’età o forse proprio per questa ragione, si muove per la città vestita come una vecchia bagascia, ma soprattutto è ben intenzionata a ricostruire un sereno nucleo familiare insieme alla dolce Carol, unica superstite della famiglia dopo la mattanza di tanti anni prima, ed a Howard il fidanzato di lei, peraltro oggetto di sguardi allupati da parte della stessa Lucy, dopo un’astinenza pluridecennale, inevitabilmente affamata di ciccia dura. La serenità dell’ex reclusa durerà veramente molto poco: dopo il suo ritorno a casa, in città iniziano ad avvenire degli orrendi omicidi, decapitazioni con un’ascia ad opera di un killer, forse una donna, vestito come la nostra ex reclusa, look tra la sglallettata e la zoccola, con una maschera che riproduce le fattezze di Lucy. La Harbin, causa il suo recente passato, è la prima sospettata e, per uscire indenne dalla terrificante vicenda, ma soprattutto per scoprire chi si nasconde sotto le vestigia della falsa Lucy, dovrà farsi aiutare da Howard e da Carol, sempre più apprensiva per le sorti della genitrice.
La donna, nuovamente sull’orlo della follia, tra crisi violentemente isteriche ed urla belluine ogni volta avviene una decapitazione ad opera della sua sosia, si scatena e riesce, dopo una colluttazione, ad immobilizzare il (o la) killer.
Gli (o le) strappa la maschera e…..

I mezzi impiegati in questo film sono scarsi, gli effetti speciali datati (le teste che schizzano via vi potranno apparire al più come quelle dei manichini della Rinascente), ma alcuni di questi limiti sono compensati grazie all’abilità registica nell’uso delle ombre, che riescono a dissimulare carenze altrimenti palesi, nel contesto di un’atmosfera volutamente cupa e terribilmente kitsch.
Anche l’interpretazione di Joan Crawford, già spigolosa vamp hollywoodiana, risulta di ben altro livello rispetto allo standard dei cosiddetti film di serie B; l’attrice con questo film e col precedente “Che fine ha fatto Baby Jane”, diretta da Robert Aldrich, ha cercato un rilancio di carriera, in parte riuscito: tanto per fare un esempio la sfida al botteghino con “Chi giace nella mia bara (Dead Ringer)”, protagonista Bette Davis, fu vinta dalla nostra decapitatrice redenta.
Per la Crawford, classe 1904, sessantenne come precisano alcuni impietosi critici, con chili di cerone sulla faccia, non si capisce quanto questo suo atteggiarsi a donna fatale, pur con gli evidenti segni di frollatura, sia stata una scelta consapevole, con la convinzione di essere sempre un bel bocconcino anche per le platee degli anni 60, oppure una scaltra scelta registica, volta a dare un’immagine grottesca a Lucy Harbin e perciò funzionale ad un’atmosfera ancor più agghiacciante e mostruosa.
Che l’attrice non fosse nuova a ruoli da vamp, in età non più verdissima, lo dimostra “Johnny Guitar” che era del 1954. Al di là delle considerazioni molto soggettive sull’appetibilità della protagonista e delle sospette pelletiche, è un dato di fatto invece come qui Joan Crawford sia la sola e vera mattatrice di tutto il film; gli altri, Diane Baker compresa, rimangono soltanto comprimari: c’è modo e modo anche per lanciare urla belluine e quelle della nostra Lucy Harbin sono decisamente di seria A. Stesso concetto se facciamo riferimento a “Gli occhi degli altri (I saw what you did)”, quando, sempre con William Castle, l’anno dopo fu protagonista di questo ottimo e misconosciuto thriller. Mattatrice che trovò una sponda adeguata nel regista, mago di quello che è stato definito “metacinema” e che la mandò per le città americane a promuovere il film con appresso un’ascia.
William Castle che qui, come nei successivi “Gli occhi degli altri” e Passi nella notte” è coadiuvato alla sceneggiatura da Robert Bloch, già autore di “Psycho”, con questo film non ci ha offerto certo una delle sue opere migliori; ma nonostante tutto sia spesso troppo sopra le righe, gli effettacci da grand-guignol (lo splatter autentico è altro), in un thrilling sostanzialmente convenzionale e lineare nel suo svolgimento, non riescano sempre a compensare le palesi economie di mezzi, anche a distanza di anni la vicenda di Lucy Harbin e della sua sosia assassina potrà regalare ancora qualche autentico brivido di paura. D’altra parte il mestiere di Castle, pur disconosciuto per decenni da quasi tutta la critica ufficiale, e soprattutto quella sua abilità promozionale che gli valse la definizione di “incantatore di platee”, non poteva evaporarsi del tutto. Parlare di William Castle (1914-1977) vuol dire ricordare le scosse elettriche e sacchetti per il vomito sotto le poltrone, ambulanze ed offerte di false assicurazioni sulla vita all’ingresso del cinema, finti scheletri e fantasmi che durante la proiezione improvvisamente iniziavano a volare per la sala, pellicole girate con finte tecniche di registrazione, le “Blood-o-rama”, “Rumble-rama”o “Shock-a-vision” che non significavano nulla, il presunto “reality film” in cui lo spettatore sceglieva il finale preferito, ovvero tutti quegli stratagemmi e pacchianerie che prefiguravano una sorta di rapporto interattivo ante litteram ed avevano lo scopo di pubblicizzare i suoi film. Giustamente si è parlato di artigianato cinematografico, sostanzialmente diverso da quel compiaciuto kitsch che da lì a pochi anni inizierà a furoreggiare in pellicole di serie Z: la suspence, se proprio vogliamo confrontare “Strait-Jacket” con altre produzioni a buon titolo definibili spazzatura d.o.c.g, qui vive non tanto grazie a fiumi di sangue o ad effetti splatter, di fatto presenti in limitata quantità; qui le soluzioni imbastite per tenere avvinto lo spettatore risultano molto poco tecnologiche, ma sempre di una certa efficacia e sono semmai basate su trovate tipiche delle arti circensi.
Un thriller con aspetti archeologici, una specie di parente povero, e molto più sanguinoso, del più noto “Che fine ha fatto Baby Jane”, ma assolutamente degno di essere visionato.
L’urlatrice Joan Crawford non teme alcuna ascia assassina e sono convinto con lei starete in buona compagnia per tutti i novanta minuti del film.

Edizione esaminata e brevi note

Cinque corpi senza testa (Strait-Jacket)
Produzione USA 1964
Interpreti: Howard St. John, Leif Erickson, Diane Baker, Joan Crawford.
Fotografia: Arthur Dreville
Montaggio: Edwin H. Bryant Ayers
Musiche: Van alexander Moriceau
Regia: William Castle
Durata 89′

Recensione già pubblicata su ciao.it nel settembre 2006

Luca Menichetti. Lankelot, ottobre 2006