Platonov Andrej

Takyr

Pubblicato il: 13 Novembre 2021

“Takyr”, novella ambientata nel deserto del Turkmenistan, fu scritta da Andrej Platonov nel 1934 approfittando dell’occasione offertagli da Maksim Gorky: recarsi con una nutrita compagnia di scrittori fedeli al regime nella regione asiatica, celebrare con un’opera collettiva il decimo anniversario del Turkmenistan sovietico e così, dopo le censure subite, tornare a tutti gli effetti al suo ruolo di letterato. Ricordiamo infatti che Platonov ebbe il “torto”, col suo romanzo “Vprok” (A buon pro) di dare “una chiara rappresentazione dei pericoli insiti nella collettivizzazione forzosa”; per non parlare della sua appartenenza al “Valico”, rivista letteraria che, secondo le parole di Ettore Lo Gatto, “fu il raggruppamento più interessante del tempo per il numero di scrittori che vi appartennero, prova della resistenza alla letteratura proletaria, in nome di principi validi in tutti e tempi e luoghi. Tali principi erano negativi per la critica marxista […]”.[1]

Complice sicuramente la pregressa competenza di Platonov in merito alle bonifiche territoriali, a dire il vero, con “Takyr”, la celebrazione della missione sovietica, non balza subito agli occhi; semmai è il deserto in quanto tale, la vita al limite dei nomadi che percorrono terreni pesanti, simili a saline, tutti tracciati da profonde fenditure; appunto, il takyr.

Vita al limite che risulta evidente fin dalla prima pagina con la descrizione del cammino di “quaranta o più cavalieri” turkmeni e dei loro schiavi, frutto di  razzie in Persia. Poi l’attenzione si volge ad una di loro, Zarrin-Tady, una giovanissima prigioniera incinta di un pastore curdo che, diventando una delle schiave di un predatore turkmeno, comincerà a servire il clan del suo Atakh-Baba: “mungeva le capre, le cammelle, contava le pecore, portava l’acqua dal pozzo del takyr – da cento a  duecento otri al giorno. Non aveva più sentito il canto degli uccelli, e aveva dimenticato il fruscio del vento tra le foglie” (pp.21). Più sopravvivenza che vita, con una lotta incessante che presto coinvolgerà la figlia Giumal’, cresciuta “senza avere nostalgia dei fiumi e delle foglie”. Poi la peste che colpirà Zarrin, l’abbandono di madre e figlia da parte del clan e il fortunoso incontro di Giumal’ con Stefan Karigrob, un vagabondo austriaco, e, molti anni dopo, il ritorno alla civiltà dopo essersi imbattuta in una pattuglia dell’Armata Rossa: “dopo quell’incontro […] non tornò per molto tempo al takyr con la torre d’argilla – per dieci anni. Visse tutto questo tempo ad Ashgabat e a Tashkent, e si laureò all’Università agraria” (pp.61). Fino all’epilogo dove, in veste di ricercatrice incaricata di individuare luoghi adatti a colture sperimentali, ritroverà i resti di qualcuno che probabilmente le era stato molto vicino per anni.

Peraltro se di primo acchito si può avere l’idea di un’ambientazione in tempi remotissimi, è solo di pagina in pagina che il lettore si potrà rendere conto che la vicenda è sostanzialmente contemporanea, che Atakh-Baba altro non era che un predone e guerrigliero basmachi, uno di quelli che, in funzione di un aggressivo panturchismo, prima del 1931 combatterono contro la nascente URSS.

Descrizione di un autentico predone, straordinariamente primitivo, ma soprattutto racconto di un percorso che, grazie all’Armata Rossa, porterà Giumal’ ad una nuova vita, dalla schiavitù al socialismo, che indubbiamente si manifesta con movenze di grande sensibilità – su tutto la povertà estrema, l’arretratezza, la brutalità, l’emozione e la disperazione di trovarsi in un deserto, in un takyr – piuttosto di una autentica glorificazione del nuovo Turkmenistan sovietico; circostanza peraltro esplicita della novella. In tutta evidenza Platonov, forse per la profonda disillusione che si coglie tra le righe, forse causa opera di insufficiente “persuasione comunista”, non riuscì a trarre alcun beneficio da “Takyr”, e da lì a poco le ritorsioni dei censori sovietici si fecero ancor più pesanti. Almeno in periodo stalinista, visto che nel 1968, il famoso regista turkmeno Bulat Mansurov realizzò il film “Rabynya” basato sulla storia di Andrej Platonov.

Ad epilogo della lettura di “Takyr”, volendo fare una dotta citazione, probabilmente le parole più adatte sono quelle di Marc Slonim: “Platonov scrisse in prosa eccellente in cui si rifletteva, come lui disse, questo magnifico e furioso mondo”.[2]

[1] Ettore Lo Gatto, La letteratura russo-sovietica, Sansoni- Accademia, 1968, pp.270.

[2] Marc Slonim, Storia della letteratura sovietica, Rizzoli,1969, pp.282.

Edizione esaminata e brevi note

Andrej Platonov, (Voronež 1899 – Mosca 1951) scrittore sovietico. Cominciò a scrivere in prosa verso la metà degli anni Venti, pubblicando su riviste una serie di racconti e romanzi (Le chiuse di Epifanio, 1927; Il dubbioso Makar, 1929; L’uomo di stato, 1929; A buon pro, 1931; Il mare della giovinezza, 1932). Densi di spunti satirici contro la burocrazia e attenti al fenomeno della disumanizzazione dell’individuo, questi scritti procurarono a P. violente critiche, culminate, negli anni delle purghe staliniste, nell’arresto e nel confino. Tornato dall’esilio, P. riprese a scrivere, ma le sue opere  non furono pubblicate. Dopo la morte, hanno visto la luce alcune raccolte di suoi racconti e romanzi brevi (Racconti scelti, 1958; Il mondo è bello e feroce, 1965; Alla ricerca di una terra felice, 1968), e i romanzi Lo sterro (scritto nel 1929-30) e Mosca felice (scritto fra il 1933 e il 1936).

Andrej Platonov, “Takyr”, Lemma Press (collana “Attese”), Alzano Lombardo 2021, pp. 76. Traduzione di Yelena Filippova.

Luca Menichetti. Lankenauta, novembre 2021