Van Sant Gus

Paranoid Park

Pubblicato il: 13 Dicembre 2007

Rendimi il tempo della mia adolescenza, quando ancora non ero me stesso se non come attesa. Rendimi quei desideri che mi tormentavano la vita, quelle pene strazianti che pure adesso rimpiango. La mia giovinezza… Basta. Sappi rianimare in me la forza dell’odio, il potere dell’amore”. Quando Goethe, nel Faust, scrisse queste splendide parole immortali che racchiudono il senso dell’ età inquieta certamente non aveva idea di cosa sarebbero divenuti gli adolescenti del terzo millennio. E come avrebbe potuto? Lui che nel Werther cantava l’amore che strazia, che spinge all’auto-annientamento. Soggetti apparentemente impenetrabili, privi d’emozione, abbandonati a se stessi da una generazione di padri tra le più dannose d’ogni tempo. Nel mondo di celluloide, spesso testimone poco indagatore dell’età inquieta, o semplice manipolatore di realtà che sappiamo essere affatto ludiche e spensierate come la finzione solitamente le rappresenta, Gus Van Sant è il loro cantore principe.  Un cantore che, con Paranoid Park, opera tratta dall’omonimo romanzo di Blake Nelson, torna ad essere partecipe degli accadimenti che racconta, nuovamente ispirato indagatore delle profondità emotive di una generazione cui la maggior forza apparente coincide con la debolezza più evidente: l’intangibilità, la parvenza di controllo emotivo, prima dimora dell’oblio della coscienza e dei sentimenti dovuta alla difficoltà di comunicare con gli affetti più prossimi. Anche e soprattutto Paranoid Park, nell’universo di celluloide di Van Sant, è un monito, un atto d’accusa contro l’incapacità d’amare, contro il sostanziale menefreghismo dei genitori americani medio borghesi (facilmente estendibile a tutti i modelli anglosassoni e non solo). L’ispirazione, come accennato, arriva da un libricino – si dice – non eccelso di Blake Nelson, dal quale Van Sant prende a prestito la vicenda e costruisce un’opera indipendente e personalissima, affidata alla recitazione di attori non professionisti, tutti ragazzi trovati con un annuncio su myspace. Ma vi accorgerete subito che la narrazione ruota intorno ad un solo protagonista, Gabe Nivens, al quale il regista del Kentucky regala un ruolo, una croce difficile da portare, che – secondo le parole dello stesso Van Sant – lo avvicinerebbe al Raskolnikov di Delitto e castigo. In realtà Dostoevskji c’entra assai poco con il film, proprio perché l’evoluzione di questa non storia è un viaggio che conduce nell’incubo sordo di un ragazzo che concede le sue poco manifeste emozioni solo ai primi piani del regista, restando emotivamente estraneo a tutto, allontanandosi progressivamente anche dal rapporto – comunque inanimato – col suo amato skate.

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Ma la storia? Vi starete chiedendo. Paranoid Park è una di quelle rarissime opere che si può permettere, vista la gamma di emozioni che restituisce, di non avere storia, o perlomeno di non averne una lineare in cui debba esserci per forza un principio e una fine. Emozioni derivanti in primo luogo dalla sua brillante regia, che fa largo uso di ralenti, primissimi piani e camera a mano, seguendo il suo protagonista di spalle in brevi e suggestivi piani sequenza, sgranando la pellicola in alcuni frangenti per risaltare la messa a fuoco sul volto del ragazzo. Il tutto reso alla perfezione da una fotografia che dipinge quadri d’angoscia esistenziale che tengono sempre viva la partecipazione dello spettatore, affidata all’ottimo Christopher Doyle, già espressosi ad altissimo livello nelle opere di Wong Kar-wai. E qui c’è tutta la magia del cinema, del cinema d’autore, perché a differenza di ciò che i maligni e gli ottusi pensano i primi piani che il regista regala al volto efebico, quasi angelico del sedicenne protagonista non sono affatto gratuiti e compiaciuti, ma al contrario una cifra estetica fondamentale per interiorizzare l’opera. Una scelta artistica precisa, senza la quale l’emozione non potrebbe arrivare cosi diretta e tutta la struttura del film non avrebbe senso. Ma il tocco di genio di Van Sant è stato quello di utilizzare un montaggio – curato da egli stesso – non lineare, che passa con disinvoltura da sequenze girate in Super 8, per le soggettive degli skater, ad altre su 35mm, creando un puzzle di suggestioni che cattura attraverso una ricca, straniante e diversificata colonna sonora che si fa forte, tra gli altri, nientemeno che di Beethoven e delle circensi e felliniane musiche di Nino Rota (si riconoscono temi da Amarcord e Giulietta degli spiriti), passando per le sonorità pop di Elliot Smith.

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La storia, giusto per lasciarvi le coordinate minime, si svolge a Portland, e vede lo sconvolgimento della vita di Alex, adolescente trascurato da genitori separati, per causa di una morte quanto mai efferata procurata involontariamente. Paranoid Park è il luogo degli skater ai margini, quello dove misurarsi con se stessi e spegnere il cervello, dimenticandosi di un mondo indifferente, vuoto, sovente crudele. Alex decide di farvi visita da solo, una sera, rinunciando ad uscire con la ragazza quasi pronta per far l’amore con lui, cercando quella pace, quell’estraniarsi dal mondo che solo lo skateboard sembra concedergli. Troverà la tragedia e, nonostante il rimorso, i sospetti della polizia e la possibilità di aprirsi a un’amica, resterà sempre e comunque impassibile, gelido, tra l’assente e lo smarrito. Solo noi spettatori, grazie al mirabile uso della macchina da presa di Van Sant, possiamo provare a scendere nel profondo del suo incubo buio: quando il regista, in una delle sequenze più intime ed emozionanti della pellicola, lo segue con la macchina da presa sotto la doccia, gli copre il volto con i lunghi capelli e lo immagina lievemente piegato su sé con sulle spalle il peso della colpa, sfocando progressivamente l’immagine per rimetterla poi a fuoco facendone un marchio indelebile. Il sigillo sull’opera.

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È grande cinema, senza dubbio, che certo non piacerà a tutti. Siamo qualitativamente oltre il pur premiato Elephant, lontani anche dal poco convincente Last Days, per ritrovare invece il pathos di pellicole come My own private Idaho (Belli e dannati) e Drugstore Cowboy, due opere altrettanto indipendenti che contribuirono senza dubbio alla notorietà di Van Sant. Costeggiando anche, vista l’adolescenza protagonista, l’unica opera mainstream di livello del regista di Portland, quel Good Will Hunting che rimane ancora oggi come la sua pellicola più amata, forse a giusta ragione. Paranoid Park è un film che si insinua pian piano nello spettatore, che cresce dentro fotogramma dopo fotogramma, allontanando la noia possibile approfondendo l’analisi del non visto senza creare inganni, artifici e false aspettative, puntando tutto sulla capacità di coinvolgerci nell’adesione che trova con il suo protagonista e – simbolicamente – con l’adolescenza come stadio di vita unico e irripetibile, anche quando è minata, come oggi avviene, dal germe di un mal di vivere che non conosce precedenti. È un’ opera che possiede una compattezza che si coglie solo se si è disposti a lasciarsi andare, vincere da un cinema che rifiuta il genere, che allontana per sempre ogni possibile stilema hollywoodiano, fino a coinvolgere sotto pelle regalando la sensazione, usciti dalla sala, di aver assistito ad una pellicola sincera, sentita. Quasi un manifesto di una generazione che si mimetizza per non lasciarsi trovare, perché ha troppo bisogno d’amore: un amore senza voce in balia delle onde.

E onda dopo onda si arriva a un non epilogo: i sommovimenti, i turbamenti invisibili e inavvertiti dal contesto che ospita il giovane Alex – davvero ispirata la scelta del giovane Gabe Nevins – confluiscono nel suo volto indagato e trasfigurato dal regista,  si fanno soggetto unico della narrazione, l’essenziale che dovremmo cogliere per poter capire. Capire come approcciare l’universo sfuggente dell’adolescenza sacrificata sull’altare del benessere. L’adolescenza di Alex,  per il quale il destino è un punto interrogativo senza fine, tra senso di colpa, impulso ad espiare e voglia di lasciarsi andare trasportato dalle onde in un oceano senza confini, senza emozioni, risucchiato da vortici in cui sprofondare, di vuoto in vuoto, verso il nulla.

Federico Magi, dicembre 2007.

Edizione esaminata e brevi note

Regia: Gus Van Sant. Soggetto: tratto dal romanzo “Paranoid Park” di Blake Nelson. Sceneggiatura: Gus Van Sant. Direttore della fotografia: Christopher Doyle, Kathy Li. Montaggio: Gus Van Sant. Scenografia: John Pearson-Denning. Costumi: Chapin Simpson. Interpreti principali: Gabe Nevins, Daniel Liu, Taylor Momsen, Jake Miller, Lauren McKinney, Winfield Jackson, Joe Schweitzer, Grace Carter, Scott Patrick Green, Jay “Smay” Williamson, John Michael Burrowes, Emma Nevins, Brad Peterson, Emily Galash. Musica originale: artisti vari. Produzione: MK2 Productions. Origine: Francia / USA, 2007. Durata: 85 minuti.