Una folgore. Proprio come una folgore arriva nelle sale il nuovo film di Francis Ford Coppola, a dieci anni di distanza da L’uomo della pioggia, suo precedente lungometraggio. E come una folgore acceca. La stessa folgore con cui prende vita la storia del suo protagonista, un lampo che annienta per rigenerare, le cellule morenti come la coscienza. L’ispirazione, dalla quale il regista americano attinge a piene mani, arriva da un visionario ed evocativo romanzo del rumeno, storico delle religioni e studioso dello yoga e dello sciamanismo Mircea Eliade, considerato dagli esperti della materia – unitamente a Dumézil e Guénon – il più autorevole del Novecento.
Siamo a Piatra Neamt, Romania, nel 1938. Dominic Matei è un docente di linguistica oramai settantenne, solo e frustrato dal fatto di non aver portato a termine l’opera della sua vita: uno studio cominciato in giovane età nel quale era viva l’ambizione di arrivare all’origine del linguaggio e della coscienza umana. Aveva rinunciato a tutto per perseguire l’improbabile impresa, perfino all’amore, incarnato dalla giovane Laura, albergante nel ricordo sotto forma di una rosa rossa mai appassita. Ha deciso di suicidarsi, Dominic, con una dose letale di stricnina. Ma il destino sembra precederlo: ecco la folgore, improvvisa, dall’alto, nel gelo dell’inverno; un fulmine che lo coglie in pieno, proprio la mattina di Pasqua. Eppure non muore, il suo corpo subisce una mutazione, le sue cellule si rigenerano fino a regalargli una seconda giovinezza. Eccolo, nemmeno quarantenne, seguito nella sua incredibile metamorfosi dal medico curante, sorprendersi a ritrovare le parole, i pensieri, la coscienza di sé. Eccolo rinverdire i fasti di una conoscenza già in passato molto ampia, padroneggiare lingue e linguaggi noti e ignoti, partorendo un altro da sé che si manifesta in una dimensione al confine tra il sogno e la realtà. Ha evidentemente un dono, che non lascia indifferenti i tedeschi, al tempo sperimentatori di improbabili teorie genetiche, che lo costringe ad eclissarsi e a cambiare continuamente identità. Rifugia nella neutrale Svizzera, ancora braccato ma oramai divenuto più scaltro di una spia, più inafferrabile di chiunque altro. I suoi poteri d’apprendimento divengono superumani, fino a palesarsi come potenza telecinetica. L’unico soggetto con cui interagisce su un piano paritario è proprio l’ambiguo altro da sé, presente nei momenti topici e agente come supporto-alterazione del flusso di coscienza. Finita la guerra ritrova l’amore, forse una nuova incarnazione di Laura, certamente la reincarnazione di qualcuno proveniente da un altro luogo e da un altro tempo. Veronica ha delle regressioni che la portano in una grotta situata in Oriente ma evocativa di un territorio metafisico, dove coscienza e linguaggio del tempo fluiscono in un incedere circolare. Attraverso la metempsicosi Veronica diviene colei che potrebbe dargli tutte le risposte: dal sanscrito all’egiziano, fino alla lingua dei sumeri, Dominic arriva a codificare, durante le regressioni della ragazza, un proto-linguaggio sconosciuto molto vicino a quello dell’origine dell’uomo. Ma la propria presenza, quella di un ottantottenne nel corpo di un cinquantenne, toglie linfa alla giovane bellezza di Veronica, venticinquenne che arriva a dimostrare cinquant’anni. E allora l’amore è più forte, Dominic le si allontana, torna dove tutto era cominciato, in Romania. Riaggiorna le foto della sua vita per aggiungerne una nuova, infante e lucente (Veronica gli aveva dato un bimbo e lui era riuscito, non visto, a scattare una foto che la ritraeva con il piccolo). Annienta l’altro da sé per ritornare al corpo reale, alla solitudine. Alla morte che da tempo lo attendeva. Ma la vita è in tre rose rosse, la terza delle quali apparirà improvvisa. Sulla soglia dell’eternità.
Un grande ritorno per un grande regista. Francis Ford Coppola, colui che ci aveva regalato capolavori come Il padrino e Apocalypse Now (e opere ricche di fascino come la trasposizione del Dracula di Bram Stoker), presenta al Festival del Cinema di Roma quest’affresco affascinante e visionario, labirintico e dichiaratamente letterario che colpisce per originalità, sensibilità e indiscutibili capacità creative nell’uso della macchina da presa. Coppola ci propone un cinema in cui altera la consueta dinamica del mezzo tecnico, filmando sequenze che si muovono su territori di confine. Non è sempre chiaro, difatti, dove cominci l’onirico e dove finisca il reale, e viceversa; al contrario è chiarissimo che l’opera di Eliade si presti a questa ambiguità visivo-narrativa che si manifesta attraverso immagini in cui c’è una precisa scelta estetica e simbolica: i piani capovolti, le angolazioni di macchina dalla distorta prospettiva ogni qualvolta fa capolino l’onirico e il metafisico, ogni qualvolta si manifesta l’altro da sé di Dominic. Coppola, seguendo come un segugio le tracce di Eliade, sposa sostanzialmente, forse con meno sarcasmo rispetto all’opera letteraria dello studioso rumeno, i messaggi di fondo contenuti nel testo: la circolarità della vita, la necessità di combattere la dimensione lineare del tempo, l’ossessione della ricerca di senso dell’esistenza, la consapevolezza che scienza e ragione non solo non esauriscono lo spettro possibile della conoscenza, ma che sono elementi secondari rispetto a qualcosa che vive con noi fin dall’origine, riportandoci, attraverso la trasmigrazione dell’anima, all’origine stessa. La coscienza e il linguaggio, sono questi gli approdi a cui tornare, attraverso un viaggio che passa inevitabilmente per le degenerazioni umane: viene evocata la Seconda Guerra Mondiale e la probabile guerra atomica (il testo di Eliade è degli anni Settanta). Un mondo destinato ad autodistruggersi, forse a rigenerarsi dalle sue macerie, proprio come le proprie cellule, costringe Dominic a conflitti serrati con il suo alter ego. Dominic non accetta questa realtà, perché non crede che nel suo eterno fluire l’uomo debba sempre distruggere (e distruggersi) per rigenerarsi; e poi l’orizzonte atomico, una possibile vita post atomica è inimmaginabile, incomprensibile ai suoi occhi in cerca di senso. Ecco perché, ad un passo dalla conoscenza assoluta, sceglie di perdere tutto per un amore umano troppo umano, comunque sia l’unica traccia del suo passaggio su questa terra. La traccia di sé e la solitudine sono le altre due tematiche forti che Coppola ben interiorizza del testo di Eliade; Eliade il quale, nell’opera letteraria, ci restituisce una dimensione profondamente autobiografica, pur trasfigurata dalla cornice fantastica, in cui palesa l’evidente pessimismo nei confronti delle dinamiche della modernità. L’uomo solo, il mutante evocato dalla narrazione, è Eliade stesso, che non a caso fa uso della sua sterminata conoscenza per parlarci di dimensioni che trascendono l’uomo materialista novecentesco, per riportarlo sui territori cosmici tanto cari alle tradizioni arcaiche, pagane, orientali (buddismo e induismo: in una regressione di Veronica appare nientemeno che Shiva, una delle tre principali divinità del Pantheon induista, con la cui nascita, secondo gli studi di Guénon, prenderebbe avvio il Kali yuga, l’età oscura) e pre-cristiane.
Non è un’opera compatta – evidenzia una ingannevole commistione di generi -, ma comunque ricca di suggestioni. La seconda parte si dilata ed è più lenta, a tratti sentimentale ma, nonostante qualche intoppo narrativo, mai banale nel suo incedere. È un film per pochi, evidentemente. Chi è lontano da curiosità letterarie e filosofiche, chi cerca ritmi sincopati, chi immagina di trovarsi di fronte un Coppola che strizza l’occhio allo spettatore con riempitivi creati ad arte per sostenere la messa in scena rimarrà probabilmente deluso. Chi è in cerca di cinema inusuale e di qualità, disposto anche a rischiare andando incontro ad un’opera che non trova collocazione di genere, è invece lo spettatore ideale di un’opera che ha l’indubbio merito di riproporre alla ribalta un superbo attore quale è Tim Roth, mai troppo valorizzato da Hollywood. Notevole anche la prova di Alexandra Maria Lara, stella di punta di un cast scovato quasi interamente in Romania. Una sola critica, pur velata, mi sento di fare al film, in quanto il regista americano amplifica la presenza dei tedeschi, nell’opera di Eliade solo vagamente accennata, forse perché lo storico rumeno è stato considerato un antisemita, in conseguenza delle sue simpatie per il fascismo rumeno (la Guardia di Ferro di Corneliu Zelea Codreanu). Nemmeno Coppola, pertanto, sembra essere del tutto immune dall’esigenza di voler attenuare, attraverso il politically correct, la pur coraggiosa scelta di un autore scomodo come fonte di ispirazione, alla quale peraltro aderisce in toto.
Lontanissima dagli stilemi hollywoodiani, Un’altra giovinezza è la pellicola più personale di Coppola (ancor più dello sfortunato e coraggioso Tucker), da lui interamente finanziata grazie agli ottimi introiti ottenuti con la sua nota impresa vinicola, nella quale il 66enne regista si confronta con gli universali della vita, trovando supporto in un testo incomprensibilmente dimenticato, ora ristampato grazie all’uscita nelle sale del film. Bene che il nome di Eliade vada nuovamente circolando, non fosse altro che per questo c’è da rendere merito al filmaker americano, ma questa incursione di un noto artista mainstream (pur atipico e quasi mai banale) nel cinema indipendente è da vedere per tantissimi buoni motivi. Non ultimo il tentativo di innovare un’arte ultimamente un po’ ingessata e fin troppo autoreferenziale. Del resto, con Un’altra giovinezza anche Coppola, come prima di lui Eliade, dimostra di voler sconfiggere, con l’ausilio dell’arte, il nemico più grande che la ragione ci ha posto di fronte: il tempo.
Federico Magi, ottobre 2007.
Edizione esaminata e brevi note
Regia: Francis Ford Coppola. Soggetto: tratto dal romanzo “Un’altra giovinezza” di Mircea Eliade. Sceneggiatura: Francis Ford Coppola. Direttore della fotografia: Mihai Malaimare Jr. Montaggio: Walter Murch. Scenografia: Calin Papura.Costumi: Gloria Papura. Interpreti principali: Tim Roth, Alexandra Maria Lara, Bruno Ganz, André Hennicke, Marcel Iures, Adrian Pintea, Alexandra Pirici, Zoltan Butuc, Adriana Titieni, Mirala Oprisor, Matt Damon. Musica originale: Osvaldo Golijov. Produzione: Francis Ford Coppola per American Zoetrope. Titolo originale: “Youth Without Youth”. Origine: USA, 2007. Durata: 124 minuti.
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