Büscher Wolfgang

Assenze asiatiche

Pubblicato il: 25 Gennaio 2012

I sei reportages asiatici del giornalista tedesco Wolfgang Büscher sono di piacevole lettura non solo per l’ambientazione, che ci conduce verso paesi lontani e culture diverse dalla nostra, ma per il modo di viaggiare. Büscher infatti predilige la lentezza ed è in controtendenza in quest’epoca di viaggi-flash e di turismo, pilotato dai tour operator.

Il nostro Autore si sposta a piedi, in barca sul fiume, in auto con i ritmi orientali e su strade pessime, a bordo di una petroliera.

Del resto Büscher non è nuovo a esperienze di questo tipo, come attestano altre due sue pubblicazioni “Berlino-Mosca. Un viaggio a piedi” (2008) e “Germania, un viaggio” (2009) editi sempre da Voland.

Spostarsi con calma sembra essere l’unico modo per capire i luoghi e per sentirsi assente, straniero finalmente in un’Asia fascinosa e piena di odori e di sapori, attraente e nauseante insieme. Sentirsi invisibile, anonimo in una Tokyo piovosa e disorientante (non vi sono i nomi delle strade e neppure i numeri civici, come ricorda con fastidio anche Troisio in uno dei suoi reportage) – “avvolto nelle mie assenze”- diviene esperienza nuova e ricercata, diviene sorpresa per una civiltà tanto differente da quella occidentale, cui comunque Büscher sa di appartenere. A volte può riuscire difficile, dal nostro punto di vista, capire certe usanze o certi gusti di popoli lontani.

Büscher rivela sensibilità di narratore e insieme di giornalista, a immagini suggestive del paesaggio – mai da cartolina – si alternano attenzione a vicende feroci della storia, come le stragi dei Khmer rossi in Cambogia o la devastazione culturale nel Tibet, calpestato dall’arroganza e prepotenza del regime cinese.

Viaggiare è una febbre (e all’inizio del libro Büscher rivela che la febbre gli piaceva fin da bambino, perché poteva sprofondare nella lettura di libri avventurosi):

Una tensione particolare si impadronisce di noi quando viaggiamo e ci addentriamo in ciò che è remoto. Guardiamo e andiamo, andiamo e guardiamo, smettiamo quasi di parlare. Vediamo in un modo che costringe al silenzio le parole cui di solito ci affidiamo. Puro presente. Ciò che normalmente siamo svanisce come nell’amore, come in un corpo a corpo. Vaghiamo attraverso territori estranei – la vigilanza è d’obbligo. E non perché si tema un agguato, ma per non lasciarsi sfuggire quello che da un momento all’altro potrebbe profilarsi all’orizzonte o ai margini del nostro campo visivo. L’istante è un animale schivo e l’orizzonte là dove non siamo. Una caccia insaziabile, lo si sa. La caccia è solo un pretesto. Ciò che importa è l’ora trascorsa ai bordi della radura.” (p.132)

In preda alla febbre è il viaggiatore del primo racconto “Un pomeriggio in India”, ambientato in un’India impregnata di odori forti, spesso fastidiosi e di polvere rossa, sputi rossi dei masticatori di betel, sporcizia, mendicanti e un maharaja che suona il sitar per le sue scimmie. Abbandonato dai compagni in un vecchio ospedale coloniale, che è un ex lebbrosario, il narratore si ritrova a contatto con l’India dei riti religiosi, dei maestri yoga e degli dei antichi.

Assolutamente affascinante e ricchissimo di suggestioni è il secondo racconto, “Il giocatore di cricket”. Dalla Dubai con 50° di temperatura – eppure dotata di una pista di pattinaggio su ghiaccio! – a una superpetroliera diretta a Singapore, in cui viene imbarcato in piena notte e in gran segreto, il narratore si ritrova tra mare e stelle, con un caldo insopportabile durante il giorno su quella distesa di tubi e macchinari. La nave sembra un antico mostro mitologico.

In quella situazione c’era qualcosa di inquietante che ci teneva sul chi vive e non ci metteva a nostro agio – almeno così mi sembrava. Eravamo la pulce nell’orecchio del gigante. Tutti si sforzavano di assecondarne con mano ferma l’umore e i ritmi, pronti a qualunque cosa pur di non frenarlo, di non deviarlo dalla rotta. Quasi stessimo cavalcando un animale mesozoico che, per massa e forza, sovrastasse quattro volte noi che eravamo i suoi nocchieri. E, come se non bastasse, sempre in grado di disarcionarci con uno scossone improvviso e di annientarci.” (p.42)

L’atmosfera è surreale, come sospesa e, nelle lunghe notti di veglia, il giornalista conosce St.John, il Secondo Ufficiale, un personaggio che sembra uscito dalla penna di Hugo Pratt. Incapace di vivere a terra e di condurre un’esistenza normale, St.John mima perennemente una eterna partita a cricket sotto quel cielo arabo, “una coperta di velluto, tutta intessuta di diamanti”. Un personaggio memorabile.

A ben più cruente vicende ci riporta invece “Mekong Mama”, che è il nome della barca su cui sale fortunosamente il viaggiatore. Destinazione: Phnom Penh. In agguato: coccodrilli feroci e maltempo monsonico in arrivo. L’imbarcazione non è affatto sicura e il nostro viaggia abbarbicato sul tetto, posto comunque migliore in caso di naufragio, visto che offre una maggiore possibilità di fuga, coccodrilli permettendo.

Il racconto sembra il seguito di quello precedente, poiché da Singapore l’Autore si è spostato – in pullman – a Bangkok in Thailandia e poi è arrivato con l’aereo in Cambogia. Gli anni delle stragi dei Khmer rossi sono appena terminati e sta per riaprire il turismo verso Angkor Vat, ma il ricordo delle risaie insanguinate è ancora vivissimo, impregna l’atmosfera del paese, è nell’aria, nell’acqua, nel pane. L’ambientazione ricorda “Cuore di tenebra” di Conrad e “Apocalypse Now” e qui si colloca l’inquietante sconosciuto, lo “stracciarolo della rivoluzione”, che rievoca la presa di Phnom Pehn ad opera dei Khmer rossi, le stragi degli abitanti, tanto che a un certo momento gli unici esseri viventi in città erano rimasti i maiali.

Di tutt’altro tono e livello invece l’ascesa, tra pioggia insistente e sanguisughe, alla montagna sacra degli sciamani, vicino al confine tibetano, per assistere a un loro rito religioso. Il viaggio diviene occasione per incontrare personaggi originali, primo tra tutti il Dottore, che lo accompagna, mezzo hippy e mezzo etnologo. Più bella è però l’amicizia con Indra, lo sciamano, che nelle notti danza vestito di bianco e con una ghirlanda di strani frutti marrone attorno al petto. Riti antichissimi, sacrifici di animali, paure ancestrali, atmosfere misteriose vengono filtrate dallo sguardo occidentale, che sa di avere alle spalle una cultura diversa. Il paesaggio a 4000 metri d’altezza, è straordinario. “le montagne sovrane brillavano come cristalli, i bianchi pendii parevano sprizzare milioni di scintille”.

Non è possibile sottrarsi alla suggestione e al ritmo dei tamburi che trasporta gli sciamani in trance verso il mondo degli spiriti.

Di Tokyo, ne “Il dio di Roppongi”, abbiamo già detto. Si può aggiungere che della capitale giapponese risaltano l’ordine, il silenzio e… l’assenza di tetti.

Infine “Shangri-La”, il luogo immaginario descritto nel romanzo “Orizzonti perduti” (1933) di James Hilton e cercato da avventurieri e viaggiatori. Si trova forse in una sperduta regione del Tibet? Ma lì l’enorme mulino di preghiera è un mulino di stato, costruito dai cinesi per trasformare Shangri-La in un affare per il turismo. Desolante. Il narratore se ne va subito.

Non ero mai stato a Shangri-La. E ora, ne ero già fuori. È già qualcosa”.

articolo apparso su lankelot.eu nel gennaio 2012

Edizione esaminata e brevi note

Wolfgang Büscher (Kassel 1951) giornalista e scrittore tedesco. Ha diretto a lungo la sezione reportage del quotidiano “Die Welt” e attualmente scrive per la rubrica Dossier del settimanale “Die Zeit”.

Wolfgang Büscher, Assenze Asiatiche. Traduzione di Valentina Parisi. Introduzione di Giuseppe Culicchia. Roma, Voland 2011.

Links:http://www.shambhoo.com/2011/07/assenze-asiatiche-di-wolfgang-buscher/

http://www.flaneri.com/index.php/flaneri/leggi/assenze_asiatiche/

http://www.mangialibri.com/node/9331