De Benedetti Paolo

Ciò che tarda avverrà

Pubblicato il: 20 Gennaio 2009

ALEF, BET, GHIMEL……..

L’uomo biblico, e l’ebreo sempre, crede – non spera – che ciò che tarda avverrà. Di questa fede, il giubileo è un segno, anzi una parabola”. (p.140)

Con queste parole si conclude questo piccolo, ma denso, libro formato da ventidue brevi riflessioni bibliche, una per ogni lettera dell’alfabeto ebraico.

Come dichiara lo stesso autore nella premessa, egli non vuole presentare meditazioni o pensieri devoti, ma vuole leggere attraverso personaggi e vicende bibliche, interpretandoli «come se» fossero letteralmente reali, come si fa anche con le grandi figure letterarie.

Prendendo avvio dalla Bibbia, De Benedetti si rifà agli insegnamenti degli antichi rabbini e in particolare al Midrash.

Questo termine significa ricerca, studio e compare solo nel giudaismo postesilico con un valore oscillante tra «commentario» (II Cronache 13,22 e 24,27) e «studio» (Siracide 51,23).

Durante l’epoca persiana (VI-IV sec. a.C.) Israele riordinò la sua tradizione, dando vita alla forma attuale della Bibbia.

Da quest’operazione nacque un bisogno di attualizzazione e comprensione del testo sacro che prese forme diverse.

Dalle riflessioni sulla Scrittura messa in rapporto alla vita nacque il Midrash, che mira a mantenere la Legge al centro della vita, in modo che non vada perduto il contatto del popolo con la Legge stessa.

Si parla di passi midrashici quando si trovano ampliamenti e rifacimenti del testo biblico.

La prima riflessione, quella contrassegnata dalla lettera alef, offre una sorta di introduzione a tutto il lavoro svolto dall’autore.

De Benedetti fa riferimento infatti alla molteplicità di offerta di senso della Scrittura e parla del settantunesimo senso, inteso come pluralità infinita di sensi che possono essere trovati nella Scrittura.

Per chiarire viene citato E.Levinas col saggio “La rivelazione nella tradizione ebraica” (in L’aldilà del versetto, Napoli 1986) che a sua volta utilizza Esodo 25,15 , dove si parla della costruzione dell’arca santa del tabernacolo.

L’arca ha delle stanghe che devono essere infilate negli appositi anelli per poterla portare e le stanghe non vanno mai tolte.

Dice Levinas: “La Legge che porta l’arca è sempre pronta al movimento, non è legata a nessun punto dello spazio e del tempo, ma è trasportabile e pronta a l trasporto in ogni momento”.

E ancora: “Tutto si svolge come se la molteplicità delle persone… fosse la condizione della pienezza della verità assoluta, come se ogni persona, con la sua unicità, assicurasse alla Rivelazione un aspetto unico della verità, e come se alcuni dei suoi lati non si sarebbero mai rivelati nel caso in cui determinate persone fossero mancate nell’umanità…. La molteplicità delle persone irriducibili è necessaria alle dimensioni del senso, i molteplici sensi sono le persone molteplici”.

Se il numero settanta è, nella concezione ebraica, quello della totalità (il mondo era costituito da settanta popoli e a tutti era stata offerta la Torah), settantuno è la totalità più qualcosa.

Noi siamo l’ultima fonte di senso della Scrittura, osserva De Benedetti.

Il settantunesimo senso è una parte rispetto al tutto, al tutto dei sensi, ma deve esserne consapevole, avere la consapevolezza di essere solo parte. E solo parte vuol dire: consapevolezza che c’è il tutto”. (pp.19-20)

Conscio di questo, l’autore si addentra poi in riflessioni molto varie su fatti e personaggi (Abramo, Mosé, Aronne), utilizzando i commenti e i racconti dei vari rabbi della tradizione, che ci permettono di penetrare nella cultura ebraica, sulla quale poi s’innesta il cristianesimo, e di cogliere alcuni aspetti della mentalità dell’uomo biblico e del suo concetto di Dio, estremamente diverso dal Dio dei filosofi.

Il testo biblico viene fatto rivivere, mostra la sua continua vitalità grazie alle numerose reinterpretazioni dei rabbi e talvolta evoca immagini molto suggestive, come alla lettera sin,dove si parla di Dio creatore-artista, che però si avvale dell’aiuto umano per produrre la cultura susseguente alla creazione.

Un pensiero rabbinico dice «Le opere degli uomini sono più belle delle opere di Dio».

L’arte, in senso globale, non è un’imitazione, ma un passo avanti rispetto alla creazione”. (p.134).

Dio crea, ma non produce arte sacra e l’incarico di creare cultura viene affidato, in Esodo 35,30-35, a un artista di umili origini, Bezaleel.

Non solo, ma l’incarico dato da Dio ad Adamo di dare il nome alle creature (Genesi 2,19-20), implica nomi diversi per culture diverse.

Il dar nome produce la cultura, ma nello stesso tempo la traduce in culture, e proprio la pluralità delle culture determina e permette la loro autonomia dal sacro. […] L’ebraismo-cristianesimo è storia, ma pure profezia, e se dona questa dimensione alle culture, non perciò le asservisce.” (p.135)

Narrare e immaginare dunque, respirando nella libertà.

L’invocazione Maranà tha (Signore nostro, vieni!), che è un’espressione aramaica che si trova in I Corinzi 16,22, può venir letta anche in altro modo Maran athac (Il nostro Signore è venuto). Conclude quindi De Benedetti:

uomini produttori o fruitori di cultura che sanno quanto contano le cose avvenute, e che perciò sanno «narrare» (e ciò vale sia per i cristiani con Gesù che per gli ebrei con il Sinai). Ma saremmo immersi in una cultura forse disperata se non potessimo dire anche l’altra formulazione: “Signore nostro, vieni!, non sapessimo cioè quanto contano le cose a venire, e non sapessimo perciò «immaginare». (pp.135-136).

Articolo apparso su lankelot.eu nel gennaio 2009

Edizione esaminata e brevi note

Paolo De Benedetti, Ciò che tarda avverrà, edizioni Qiqajon, Comunità di Bose 1992.

Paolo De Benedetti, docente di Giudaismo alla facoltà teologica dell’Italia settentrionale di Milano e all’Istituto di Scienze Religiose dell’Università di Urbino, ha pubblicato presso Qiqajon “E l’asina disse…”. L’uomo e gli animali secondo la sapienza di Israele.