Franchi Gianfranco

L’Inadempienza

Pubblicato il: 7 Ottobre 2008

Una raccolta poetica che si snoda lungo l’arco di dieci anni non è solo esperienza estetica, ma diviene anche percorso esistenziale, presa di coscienza di sé e delle proprie capacità.

La poesia di Gianfranco Franchi è figlia di centinaia di influssi diversi, all’insegna dell’eclettismo,della sperimentazione e di una straordinaria capacità d’interiorizzare gli autori: dai grandi classici antichi e moderni (Ungaretti, Campana, Gozzano solo per citarne alcuni) agli artisti rock, soprattutto Ian Curtis.

La cultura di Franchi è vastissima ed è il risultato di anni di letture, di studio feroce e di riflessioni che l’hanno portato a riconoscere in alcuni letterati (Guido Morselli in primis) i propri padri spirituali.

Colpisce il carattere definitivo, di “atto postumo in vita” come si dice nella prefazione, che l’Autore – ancora giovane – vuole dare a questa raccolta, è come se sentisse di aver bruciato tutti i ponti dietro di sé e di non aver più nulla da dire con i versi. Non desidera più presentarsi ad un pubblico con questa forma espressiva.

Rimarrà comunque artista per il mondo simbolico che possiede, per il suo modo di avvicinarsi alla realtà, per l’adesione così forte alla letteratura da farla coincidere con la vita stessa. Dovunque lo conduca la sua ispirazione, l’imprinting letterario lo accompagnerà, Franchi è diventato inscindibile dalla letteratura, la respira e la vive, appartiene al suo sangue. La dedica del libro ai fratelli letterati ne dà testimonianza, dall’ombra Franchi vuole unire il suo canto al loro e li omaggia, li cita, li rinnova dall’interno, li supera e si costruisce un suo stile originale, confrontandosi.

Il sigillo primo di un’opera che giustamente è stata definita la “silloge-sigillo”, porta il nome di letteratura. Dall’infanzia alla giovinezza alla maturità questa “moglie-madre-dea” accompagna Franchi, che è letterato tra e per i letterati.

Voglio poi immaginare altri sigilli, in ceralacca rossa come quelli antichi, che costituiscono i cardini della raccolta: l’amicizia, l’amore, ma anche il niente che assedia, la vagheggiata utopia, la dimensione di inadempienza-incompiutezza-imperfezione, la sperimentazione.

Sono tutti elementi ricorrenti nella poesia di Franchi, che dimostrano il suo desiderio di essere coerente, pur tra disorientamenti e contrasti interiori.

Questi sigilli segnano la sua ricerca, che comunque non si ferma, soltanto cambia pur mantenendo il suo inconfondibile senso di sfida:

“E adesso aspettati qualcosa che non mi pento e non mi spengo”.

RIVELAZIONE (1995-99)

È il rivelarsi del poeta, il suo primo mostrarsi in pubblico, probabilmente preceduto da esperimenti privati infantili o adolescenziali, vista la precocità del talento.

Sono poesie incisive e giovanili, alcune di notevole matrice ungarettiana, che contengono già elementi che verranno sviluppati in seguito nell’intera raccolta: il disertore, il rimpianto e il rimorso, i luoghi-cardine Trieste e Roma, la “tracotante imperfezione”, “inespressi”riferito alla coppia, la nostalgia, qui legata alla madre, che é sempre figura dolente e lontana, “scintilla fredda”, prodromo al “fuoco freddo” che comparirà già nella sezione successiva.

La sperimentazione è ancora lontana, ma davvero inquietante è la “musa claudicante agorafobica” che ricorda le modelle di Egon Schiele, come è stato messo in evidenza nella prefazione.

INCOMPIUTA (1999-2000)

Le poesie iniziano a farsi più complesse e di particolare buon gusto ed efficacia è la grafica, che assume un ruolo estetico non indifferente e movimenta lo scorrere delle pagine.

Compare un verbo-chiave: deragliare, che, insieme a tracimare pervaderà la vena creativa di Franchi.

Ritorna il disertore: “ammutinato disertai la rotta”, è il ribelle che s’allontana dai canoni borghesi e cerca altri orizzonti. Tra ricordi e incubi –bellissimo e struggente quello dell’infanzia col padre in “Prati di Calvi”; terrorizzante invece la figura della nonna come Pizia in “la madre di mia madre” – si delinea sempre più la vocazione alla letteratura, la volontà di sprigionare il “fuoco freddo” dell’arte per scavare in se stesso e per condurre il lettore nel proprio mondo, stupendolo.

Si fa contemporaneamente vivo il senso del niente, che assedia e minaccia, mentre l’amore – totale, assoluto, eterno, giovanile – è possibilità di unione e salvezza.

In maniera improvvisa la sezione si chiude, di qui forse il titolo di “Incompiuta”, con due liriche d’annientamento: “Vanità soffocata” e “Lankelot damnatiocapite”.

Con atteggiamento di provocazione e di sfida, come un antico cavaliere, l’Autore si offre al niente e attua una damnatiomemoriae, un atto per certi versi peggiore del suicidio. Si tratta di una morte in vita, è la cancellazione di sé, l’adesione e l’immersione nella palude del niente fino ad interiorizzarlo. Il tono però, come si diceva, è provocatorio, nominare serve a conoscere il proprio avversario e a esorcizzarlo.

L’Autore è ben consapevole che il niente assedia da sempre i letterati e gli artisti in generale e lancia la propria personale sfida contro il ”fragore silenzioso d’una morte in vita”. Ancora una volta si nota l’uso dell’ossimoro, un altro leit-motiv della poesia franchiana.

LE ROVINE DEL TEMPO (2001)

Segna un cambiamento, una nuova evoluzione e si apre con la lirica eponima della prima raccolta di poesie di Franchi, “Ombra della fontana”.

“Triste mi presento: sono l’ombra della fontana/ motivo dell’agonia è la nullificazione assoluta…”

Colui che si presenta qui è un poeta che vuole cantare dall’ombra, renitente, di nuovo disertore, deciso a rifiutare consolazioni troppo facili, sempre più consapevole di sé e del proprio compito.

La sezione si presenta come un approfondimento della ricerca non privo di difficoltà, battute d’arresto, angosce, “mi dispero a ritrovare/ le stelle della giusta navigazione”.

Vivere in cerca d’orientamento è un leit-motiv generazionale che Franchi riflette nei suoi versi.

Compaiono qui immagini surreali e oniriche di grande efficacia, tra tutte un cavallo nel deserto di pietra, evocazione di certi quadri di Dalì, fantasma di dissoluzione e morte.

La vita sembra snodarsi tra noia, apatia, vecchi oggetti come l’orologio da cucina, tazze sbeccate destinate a diventare reperti archeologici del futuro e roghi di vecchie poesie. Insignificanza, incertezza, non senso, noia che serve ad assorbire il dolore, a far diventare un “interruttore spento”, “dislessia del pavimento” come desiderio di non pensare più a niente, gettandosi a terra, bofonchiando frasi incomprensibili.

Lo spirito di Guido Morselli, uno degli autori più amati da Franchi, aleggia e il rimbombo della Browning si fa sentire al di là dei manoscritti bruciati dal sole nell’Archivio Corti di Pavia. Sprofondare cela una segreta voluttà.

Rimpianto e rimorso flagellano, la nostalgia o dolore del ritorno ancora una volta s’associa alla figura materna.

Notturno e scontroso, umbratile e tormentato, l’Autore si guarda indietro prima di proseguire. In verità è uno spirito indomito e lo dimostrerà, ma ama riandare a se stesso, rivedersi e riflettere su un passato adombrato da malesseri.

Qualche poesia è scritta col sangue e qualcun’altra con le lacrime.

A volte gioca con le parole.

Fari per orientarsi sono l’amore, mistero d’appartenenza qui legato a immagini favolistiche (il cavaliere, il carillon) e l’amicizia, intesa come solidarietà, fedeltà, memoria di quel che si è vissuto insieme. Il sodalizio umano-letterario, la fratellanza che conduce a progettare insieme utopie, a sognare il tempo nuovo, a lavorare per realizzarlo viene celebrata come antidoto al niente e al male, come forza per affrontare il futuro, come brace incandescente. “Siamo noi la pietra filosofale”.

“Le rovine del tempo” è una sezione centrale e determinante anche per la visione di se stesso che l’Autore matura al suo interno. Poco dopo le prime liriche, ecco come si definisce: “io sono il segreto chiavistello/ il peccato rimosso, la maledizione incompiuta”, vuole diventare spettro e ombra e da lì cantare.

Fiero e dannato, maledetto come tanti suoi modelli letterari, sa di esser stato “allattato dal sangue della poesia” e vanta “illegittima pretesa d’immortalità”.

Alla fine però un cambiamento è avvenuto, è diventato lo “sposo della luce perfetta, sacerdote dell’evocazione e dell’allegoria/ sono io il profeta, il ramo nuovo della poesia”.

Sono versi di tono messianico, non privi di superbia intellettuale, che alla fine è consapevolezza della propria preparazione culturale e capacità artistica.

L’Autore celebra mistiche nozze: “sii tu mia moglie, madre e dea,/verità unica letteratura”, all’arte si vota, all’arte dedica la vita.

Come un cavaliere si schiera e lancia la sfida alle ombre e alla morte.

“Io sono colui che cerca il senso ultimo,/ la parola prima, […] io sento che ciò che cerco non esiste”.

L’ADE (2001)

Un cupo assolo apre il poemetto, “sogno di furia e sangue”, discesa agli inferi

al centro di un dolore tale che può essere evocato soltanto attraverso simboli e trasfigurazioni.

Come Celine, l’Autore viaggia al termine della propria notte. Siamo nel 2001: Franchi ha ventitré anni e ha già attraversato abissi nei quali ha rischiato di sprofondare. Nominarli serve a incatenarli e a esorcizzarli. Chi conosce il nome delle cose, le domina ed esse non hanno più potere su di lui.

È una poesia visionaria e misterica, dove il percorso del poeta viene accostato a quello di Orfeo, che osò avventurarsi negli inferi armato solo del suo canto. Così l’Autore possiede soltanto le parole per sconfiggere i fantasmi e i mostri che lo assediano. Non gli manca il coraggio, né la forza, la sua sfida è alla morte stessa: “e la morte non avrà nessun dominio”.

L’ascendenza è – per dichiarazione – autobiografica, è il capitano Franchi a comandare stremate legioni, sarà lui di bianco vestito a scendere da solo, suo malgrado, le scale infernali, “amaro, paralizzato dalla nebbia”(e dunque disorientato), sfiora porte di fiamme piangendo, dimentica gioia, ma prosegue.

“Eppure io vivo, e voglio la felicità”.

Lotta individuale e personale all’oscurità. Questa la sfida, questo lo scopo ultimo della discesa fino in fondo alla tenebra: conoscerla per esorcizzarla e superarla.

Il capitano varca la soglia dell’Ade: visioni inquietanti, un soldatino di piombo suona la musica di uno spartito misterioso, offre a una bambola di pezza un cardo, con cui s’identifica l’Autore.

È uno strano Ade con gradini d’acqua e tre cuccioli che paiono l’antitesi alle tre fiere dantesche. Sono infatti aiutanti, non ostacoli, soprattutto il delfino, animale acquatico per eccellenza.

Nell’Ade si rivelano le colpe – vere o presunte – che l’io si attribuisce ed allora anche i tre piccoli aiutanti se ne vanno spauriti. Solitudine è la sorte del capitano, che avanza in sé stesso, silenzioso, fino in fondo inesorabilmente.

È il momento secondo, la scoperta-rivelazione dei segreti.

Si entra nel cuore del poemetto: tre segreti, tre vie, tre alleati, tre condizioni. Emergono valori (onestà, fedeltà, lealtà), ma sono necessarie anche forza, purezza, lucidità, incandescenza. Sono gli ideali del cavaliere. Un dodecalogo laico.

Le condizioni – e le conseguenze – di questa scelta saranno: isolamento, emarginazione e coscienza di tutto questo. Si tratta della condizione dell’artista puro nella società contemporanea.

“Io sono l’allievo di infiniti maestri,/ alleati, fratelli e rivali:/ io sono la provocazione invocata/ […] Io sono il profeta primo del Dio nuovo, […] sono lo spirito che chiamaste agnus Dei.”

Affermazioni incandescenti, che immaginiamo volte ad autoassicurare il protagonista su se stesso.

Il dolore arretra una volta trovata la via e la via è letteratura, cioè menzogna e perenne incompiutezza.

“Navigo nel mare dell’incompiutezza/ io sono l’essere imperfetto […] sono colui che verrà dimenticato,/ il profeta del niente,/ il crimine nuovo -/ sono la sapienza futura,/ geminazione della follia”.

Questa la via, “infinita ricerca”, libera parola: nessun trionfalismo, la coscienza è quella della propria imperfezione e del proprio destino di diverso.

Sfinito, il capitano s’addormenta. Il viaggio è finito.

LUCILLA DELLE MIE OMBRE (2002)

Collocate subito dopo “L’Ade” a contrastarne gli incubi e a ridare speranza, ecco le cinque lucille, pagine dedicate all’amore e alla bellezza femminile, un tema sempre presente in Franchi, ma qui cantato con particolare intensità.

È l’amore felice, ricambiato, totale, assoluto, giovane e fresco, fatto di appartenenza, quell’amore che fa dire “noi” e non più soltanto “io”. È adorazione di una donna-domina-dea, figura danzante e scintillante di luce, in sintonia col suo nome.

“In te ammainavo vele di libertà”, come Orfeo il poeta può incantare l’Ade, si sente animato da forza nuova, soggiogato eppure lieto. Grazie all’amore le sue contraddizioni possono risolversi, il passato smette d’essere incubo, lo spirito tormentato, che ha versato il suo sangue ed è stato incenerito, può sentirsi pacificato e non più scisso.

“Sono un frammento di vita nel respiro dei tuoi sogni”.

E quando la lontananza suscita struggente nostalgia, c’è l’attesa del ritorno e c’è il sogno. “Sognare di sognarti, e di essere sognato”.

Dedizione, appartenenza, bellezza, queste pagine costituiscono un unicum nella

poesia di Franchi, contengono una scintilla d’infinito.

L’INADEMPIENZA (2001-2006)

La sezione eponima della raccolta è la più lunga ed estesa cronologicamente.

Fin dall’inizio presenta un io poetico compresso tra stanchezza, noia, apatia, rabbia, isolamento, frustrazione per lo schiantarsi degli ideali, senso d’impotenza per l’impossibilità d’incidere nella realtà, inadempienza per non aver mantenuto le promesse iniziali.

Una routine sembra stritolarlo, oggetti vecchi o desueti di gusto crepuscolare lo circondano, il calcio diviene il suo oppiaceo, c’è un senso di malessere dalle molte sfumature – sentirsi sbagliato, fuori posto e fuori tempo o inutile, imperfetto, inconcludente – che trova voce e immagini in numerose poesie, anche se Franchi ha la straordinaria capacità di rinascere dalle proprie ceneri come la Fenice e di creare versi di meravigliosa luminosità come ne “Il vento si distende sul cielo”:

E come le onde del mare vorrei/ allontanarmi da tutto e non ricordare più niente/ perché quando il vento si distende sul cielo/ il cielo mormora la formula del sonno/ che tutte le creature comanda ,e a tutte dà la pace”.

Le liriche de “L’Inadempienza” sono però in prevalenza notturne, lunari, impastate di ricordi e rimpianti che l’oscurità fa affiorare con maggior forza: il grande amore – lucilla delle mie ombre – perduto, gli ideali schiantati, i sogni sfumati. La memoria diviene martirio, carcere e labirinto sono immagini del disorientamento, l’arte è ricerca di una direzione, di un varco tra le gabbie e le catene. Unica possibilità: “resistere, resistere nel nome di utopia”, solo orientamento in una realtà altrimenti magmatica, disorientante e dedalica.

Ricorrente il leit-motiv:”Domani non esiste”. È l’impermanenza: nessuna tragedia è per sempre, tutto può sempre mutare, ma è anche un soffermarsi nel presente, perché non è possibile progettare un futuro.

In questo contesto fitto di ombre, numerose sono le pagine dedicate all’amore, poche hanno la luce e l’entusiasmo delle lucille. L’amore ha sempre in Franchi il valore di liberazione dal passato, composizione delle scissioni interiori, dono di sé, sogno, scoperta comune dell’infinito, ma qui è soprattutto incertezza, tormento, desiderio inappagato. “Un amore che non nasce è perfetto: l’attesa è un ottativo”.

La figura femminile diventa evanescente, fascinosa, diafana, labirintica, incerta, indecisa, confusa, distratta, pericolosa. È groviglio e capriccio. “Vagabonda farfalla lunare”.

Il poeta è in suo potere, disarmato. Più volte la invita a vivere e ad abbandonarsi al sogno e all’amore: i due rimangono indefiniti, inespressi, lei è sfuggente e misteriosa e infine tende a replicarsi, a ripetersi, finché il poeta, esausto e raggelato, dopo essersi processato in spietati esami di coscienza, si fa estraneo.

sibilando violenterà la nuova replica,/ disgregherà il futuro, sguscerai via- / come un dado,/ acrobata del vuoto”.

È probabilmente da questo senso d’indeterminatezza, dalla continua altalena sentimentale che nascono certe liriche sperimentali, che vogliono esprimere un autentico corto circuito dei pensieri di un letterato. Abbiamo così mistioni linguistiche, crux, frasi sospese, segni grafici, parentesi, un tracimare e deragliare del linguaggio, riferimenti alla musica rock. L’io rischia d’implodere tanto che a un certo punto chiede di essere spento come un vecchio pc.

Errore vivente”, cerca la dissoluzione.

Struggente il ricordo dell’amore felice perduto, che fa sentire il poeta ancora più solo e desolato.

Al centro della sezione, quali punti di riferimento, si stagliano Trieste e Roma, le due città-cardine di Franchi.

Trieste è la capitale mitteleuropea, amata, contemplata, luogo delle origini.

“Trieste, io sono, non un’anima sola, […] inquieta frontiera,/ emporio e museo,…” , Franchi si è impossessato delle proprie radici culturali e degli autori triestini (Svevo, Magris, Saba, Tomizza, Slataper, Stuparich) e sente suo il sangue “barbaro” e misto di questa città.

Roma invece è la città in cui l’Autore vive, ma con cui non s’identifica.

“Eterna e misera città…”

Roma appare anche misera proprio per le sue fasce di povertà, le sue sterminate periferie e per le profonde solitudini che alberga, è luogo di corruzione e d’intrighi politici. Indifferenza e arroganza sono i difetti ben chiari dei romani.

Non solo, Roma è città-cimitero: luogo di rovine stratificate da secoli, pietra su pietra. C’è un rapporto di odio-amore tra il poeta e la città in cui vive: le sue radici culturali ed etiche appartengono a Trieste, ma Roma gli appare bella dal balcone del Gianicolo, seppur corrotta e in dissoluzione. Ecco allora che da quest’assurdo centro non ci si può distaccare, non resta che cantarne la fine, possederla così senza allegria, essere solo in parte romano, estraneo, laterale all’essenza del luogo.

E a Roma c’è la mansarda, la casa, luogo della vita quotidiana dove “lo sguardo s’uncina bianco sui muri”.

“L’Inadempienza” si chiude con alcune liriche-epilogo tra cui un Diario 2001-2004. Consapevole di muoversi controcorrente come un salmone – “Perché nel niente del niente si vive belle lettere e poca poesia”- nauseato dalle troppe notti insonni passate tra scrittura, musica e memorie, l’Autore invoca: “exurge, antica lancia, ritornami: squaderneremo idoli d’oro, furiosi. danzerò sulla polvere del tempo”.

Non rinnega nulla e non si pente, soltanto chiude una pagina per aprirne molte altre differenti.

articolo apparso su lankelot.eu nell’ottobre 2008

Edizione esaminata e brevi note

Gianfranco Franchi (Trieste, 1978), detto Lankelot, ha pubblicato in poesia: L’imperfezione – Opera III (2002) e Ombra della fontana. (2003; Kult, 2006), poi confluiti ne L’inadempienza (Il Foglio Letterario, 2008). In narrativa: Disorder (Il Foglio Letterario, 2006) e Pagano (Il Foglio Letterario, 2007). In saggistica, ha curato la plaquette Lettere alle tre amiche di Scipio Slataper (Alet, 2007).  È stato coordinatore di due riviste letterarie universitarie, Ouverture e Der Wunderwagen, tra 1997 e 2003. Dal 2003 è responsabile del portale indipendente di arti e scienze Lankelot.eu. Vive a Roma. Collabora con diverse testate, web o cartacee; lavora da consulente editoriale per la narrativa. Biobibliografia completa: www.lankelot.eu/?biografia=34

Gianfranco Franchi, “L’inadempienza”, Edizioni Il Foglio, Piombino 2008. Pag. 265

Prefazioni di Marco Fressura e Patrick Karlsen (I) e Nicola Vacca (II). Postfazione di Angela Migliore. Quarta di Stefano Scalich. Illustrazioni di Maurizio Ceccato.

Impaginazione e grafica di Marco Fressura. Collana Autori Contemporanei Poesia. Direttore Fabrizio Manini.

www.ilfoglioletterario.it