In nessun luogo andai / Per niente ti pensai / E nulla ti mandai / Per mio ricordo / Sul bordo m’affacciai / d’abissi belli assai / Su un dolce tedio a sdraio amore ti ignorai / Invece costeggiai / I lungomai
Sono questi i primi versi, accompagnati da note assai più melodiche di quelle che risuoneranno nei giradischi due anni più tardi con L’apparenza, che sorpresero gli amanti di Lucio Battisti nell’oramai lontano 1986. Eppure non già ( eh già…) da qui si dovrebbe partire per individuare il punto di rottura artistico della rivoluzione battistiana, li dove si manifestò palese la distanza con il precedente sodalizio musica-parole con Mogol. Eh già, proprio E già, del 1982 – come ci ricordano, a giusta ragione, Ivano Rebustini e Luca Bernini, autori del saggio Specchi opposti (se fossimo simpatici / uno all’altra / saremmo specchi / opposti e riflessi / limpidi e inebetiti / tra se stessi) – è lo snodo fondamentale, la traccia da seguire per arrivare al sodo.
Ma torniamo per un attimo a Don Giovanni, a Le cose che pensano; sappiate che quei versi che vedete su in alto, se non li conoscete ancora, sono stati la fonte della mia prima vera ossessione di ricerca testuale-musicale. E mi scuso se nell’introdurre l’ottimo saggio di Ivano Rebustini ci metto un (bel) po’ del mio personale approccio all’opera del Battisti misterioso e incomprensibile, asettico e monotono (nel senso di un solo tono: monotono? Ma quando mai!), monotematico e monocorde: mono. Ascetico, afasico, assente, addirittura esoterico. Ci ha preso per il culo? È stato un genio? Masturbazioni dell’intelletto che non sfiorano per nulla Rebustini, il quale come scoprirete andando in là con la lettura – mai i più attenti e smaliziati, i decodificatori di enigmi, lo capiranno subito – trasferisce il piano di indagine principe da Battisti a Panella. Perché questo ribaltamento (ha sentito come un gran rivoltamento / e cateratte urbane e vigili del fuoco / e din don dan) dei ruoli in un’opera che celebra Battisti? Il mistero – che poi mistero non è – ci è svelato nella conclusione del saggio dallo stesso Rebustini: “Oddio? Non è che sarò andato fuori tema? Dovevo raccontare che vita ha fatto, ripercorrere gli anni di Battisti con Panella, non gli anni di Panella con Battisti. Ma forse, paradossalmente, l’unico modo per ritrovare quel Battisti era cercarlo in questo Panella”. Da amante dell’opera omnia Battisti-Panella (che è altro dal Cofanetto, come ci spiega lo stesso Panella, pur comprendendo la raccolta tutte le 40 tracce dei 5 dischi) confermo, approvo e sottoscrivo; perché il punto non è l’invisibilità di Lucio, né la sua “assenza”, dunque l’impossibilità di carpire informazioni direttamente dalla fonte, ma il risultato ultimo dell’importante e ipercriticato (dai battistiani mogoliani radicali., e non solo) sodalizio artistico tra il musicista e il paroliere. Il risultato, dunque, è che senza Panella questo Battisti che canta L’apparenza e La sposa, gli Specchi opposti e I ritorni, la tesi, l’antitesi e la sintesi (Hegel) fino alla misantropica solitudine del Don Giovanni non sarebbe mai potuto esistere. E ci avrebbe tolto sinceramente qualcosa, di bello ed importante, se davvero – come pur in parecchi avrebbero sperato – non fosse mai esistito. Diversamente, invece, Panella esiste, esisteva ed esisterà anche senza Battisti, come l’indagine di Rebustini evidenzia, a volte più e a volte meno palesemente, ma sempre seguendo la linea guida di cui sopra: sono i versi del paroliere l’anima-spirito dei 5 dischi. Battisti è il corpo, il corpo e la voce, e nel primo disco con Panella anche di più: Non penso quindi tu sei / Questo mi conquista / L’artista non sono io / Sono il suo fumista. Rebustini coglie, in Don Giovanni, l’unico dei cinque album della coppia per cui siano state scritte le musiche prima dei versi, l’ossequio di Pannella al grande della musica leggera italiana, ancorché successivamente si abbandoni a versi pannelliani d.o.c: Che ozio nella tournée / Di mai più tornare / Nell’intronata routine / Del cantar leggero / L’amore sul serio.
Don Giovanni fu anche l’ultimo disco di Battisti a raggiungere la vetta delle superclassifiche, con quei versi cosi stranianti, enigmatici, bellissimi, cantati magistralmente su densa melodia: Sul dolce tedio a sdraio amore ti ignorai / invece costeggiai / I lungomai. Non v’è dubbio che furono proprio i lungomai a rapirmi: un vero e proprio neologismo che dà il senso dell’estensione, amplificata dal cantar leggero: l’amore sul serio.
Rebustini viaggia tra doppi, tripli e quadrupli sensi, tra i giochi di parole e i rivoltamenti del paroliere, vivisezionando i 5 dischi in ordine cronologico; si addentra con intuito e notevole padronanza della difficile materia trattata – non sono solo canzonette, a ben guardare – nelle profondità dei vortici panelliani, lasciando sempre Battisti sullo sfondo, senza peraltro far pesare questa inversione dell’importanza dei ruoli agli occhi avidi di notizie dell’appassionato. Con l’Apparenza qualcosa già muta e si evolve in direzione di un labirintico e criptico altrove del verso in musica, laddove anche le note d’accompagno costruite da Battisti si fanno più impersonali e ridondanti: si comincia una sorta di viaggio ipnotico in cui il disco risuona più meccanicamente, come fosse una nuova geometria musicale. Se in Don Giovanni c’erano ancora molti strumenti in bella evidenza, Rebustini ci conferma che qui siamo nell’impersonale puro, o quasi. Eppure più l’ascolti, L’apparenza, più t’entra in circolo come una droga di cui si diventa piacevolmente schiavi. Non esistono più i ritornelli ma, come ci conferma Panella, di qui in poi le creazioni del duo diventeranno un unico, lunghissimo ritornello: Trasvola sopra l’ultima papilla la farfalla / E la lingua la spilla / E ripeschiamo l’oh dello stupore col quale incorniciamo / il fragile leggero di quel che non diciamo (traccia 3: Allontanando). Panella fa e disfa, e Battisti lo segue con la sua voce inconfondibile come se fosse l’esatta intonazione-estensione delle parole scritte: Avendo voglia tempo / E la serata adatta / Tutto è dimostrabile / Soprattutto il contrario / Con un’abile manipolazione / Dello scenario (traccia 8: Lo scenario). Qui Rebustini coglie l’ambiguità di Panella, che sembra sfidare l’ascoltatore. E sì che ci siamo scervellati parecchio, noi pochi, noi amanti della prima ora, mentre Panella lieto e beato si faceva beffe di tutti con le parole. O forse no. Forse il senso c’è e forse non si vede, più probabilmente c’è allusione, assonanze, amore per la nostra bella lingua. Ma davvero Panella è un poeta ermetico-post futurista come si diceva quando Battisti era ancora in vita? Il libro non conferma né smentisce ma propende – addentrandosi nell’analisi – per cercare altrove. Sempre che sia questa la via da seguire, trattandosi di Panella.
E Battisti? Ne La sposa occidentale e C.S.A.R. (Cosa succederà alla ragazza) l’operazione di adesione, distacco e sdoppiamento si fa completa: l’artista di Poggio Bustone è un ologramma immaginario che recita i versi del paroliere, più incorporeo dell’ Obi-Wan che appare a Luke Skywalker, pescando peraltro più d’una perla interpretativa, nonostante la presunta assenza. Che sia vero il contrario, rispetto a ciò che ho affermato in precedenza? Che Panella sia il corpo (le parole) e Battisti sia l’anima-spirito (la voce senza corpo). Ne La sposa c’è una traccia che si eleva, con sorpresa, senza troppi giri di parole, su una melodia inattesa. Seguite questa intensa ed ispirata sequenza conclusiva: E i sogni si allontanano / come i cavalli scossi / caduti i sognatori / bocconi tra le fragole, ma / più dolci e più rossi / ridotti a dolenti spifferi / E docili incompetenti / nella lotta incerta / tra il ridire e il fare / l’amore colloquiale / E lei continua a dirsi / “si sopravvive a tutto per innamorarsi” / Amarsi è questo: escludere / d’essere i soli al mondo, / i soli ad esser soli amando / sterminandola l’invincibile armata. Come nota saggiamente Rebustini, qui Panella parla d’amore senza troppe sovrastrutture – certo ai neofiti sembreranno complessi anche i versi or ora riportati -, e Battisti interpreta magistralmente: I ritorni è la traccia più bella del disco, una delle più ispirate in assoluto del duo. C.S.A.R. è un’opera sulla falsariga de La sposa, ma a mio avviso meno ispirata, ancorché Rebustini faccia notare come contenga forse il pezzo più orecchiabile dell’intera discografia Battisti-Panella: La metro eccetera.
E siamo a Hegel, la “deriva filosofica”, che a ben ascoltare più che filosofica è solo una sorprendente e suggestiva deriva, peraltro l’ultima della strana coppia. Qui Rebustini individua dei versi che – ancora una volta a giusta ragione – sarebbero “una sorta di compendio non tanto della poetica panelliana, quanto della sua grande capacità nel convincerci di una cosa e immediatamente farci domandare se non possa trattarsi del suo contrario, o di qualcos’altro ancora”. Siamo nella quarta traccia, La bellezza riunita: Mi apparisti vestita / E più carpita da me / Più che tu non lo fossi / Misurarti la vita / Mi pare proprio che sia / Tutto quello che posso. Il filosofo tedesco da cui il disco prende il titolo naturalmente è presente, anche se in forma surreale, nei pezzi Hegel e Tubinga, e ci sono anche più varianti musicali rispetto a L’apparenza, La sposa e C.S.A.R: un inedito giro di basso, sul quale entra una batteria ne La moda del respiro, antiche “melodie mogoliane” in Estetica (titolo anch’esso vagamente riconducibile all’opera del filosofo tedesco) e il noto e ineguagliabile falsetto battistiano nell’ultima delle quaranta tracce partorite dal duo: La voce del viso.
Rebustini fa anche un po’ di ricerca sul numero: 5 album, di 8 canzoni l’uno, per 40 tracce complessive in 8 anni. Usciti rigorosamente ogni 2 anni, quelli pari: dall’86 al 94. Ma il numero, anche se c’è una teoria in merito che scoprirete leggendo, conta e non conta. 5 album per 5 copertine che più essenziali non potrebbero essere: la prima su sfondo color carne, molto tenue, le altre 4 bianche, più che mai impersonali. Su tutte un disegno – se di disegno si può parlare – minimo, che dir minimalista sarebbe anche troppo. Prima delle note conclusive vi è anche un’interessante intervista rilasciata, appositamente per integrare il testo, dal paroliere nella quale Panella conferma di essere un tipetto niente male, uno che si permette di sminuire, con coerenti motivazioni a supporto, un pezzo storico della musica cantautoriale:” Ribadisco: i miei testi sono gli unici comprensibili. Io non capisco Bocca di rosa. È fin troppo facile difendere una puttanella dal povero pretino di campagna e dalle beghine, sarebbe come difendere le margherite dall’evacuazione di una vacca. Che cosa devo capire li?” Si nota tutta l’irriverenza del paroliere, in quest’affermazione usata per rimarcare, se ancora non fosse chiaro al lettore, che non c’è nulla da interpretare nei suoi versi, che è tutto più limpido e meno cervellotico di come sembra. Dipende sempre dall’occhio di chi legge, dalla disposizione di chi ascolta.
Ma in conclusione, Battisti? A questo punto, come nei migliori gialli (come i gialli / la corolla assassina / il pistillo che sa), oltre a scoprire l’assassino è d’obbligo anche capire il movente. E qui si torna al principio del saggio, lì dove Luca Bernini analizza l’album intermedio, E già, quello senza Mogol e senza Panella, quello i cui testi portano la firma Velezia. Velezia non è altro che Grazia Letizia Veronese, la moglie dell’artista di Poggio Bustone, ancorché sembra che le 12 tracce dell’album siano state scritte proprio dallo stesso Battisti. E già è “il primo album di musica leggera realizzato con l’esclusivo ricorso all’elettronica, senza l’inserimento di alcuno strumento tradizionale”. È un disco di rottura totale, ancor più delle opere realizzate con Panella, nel quale – a detta di Bernini – Battisti è veramente se stesso. Per la prima e unica volta. È un’opera intima e personale, restituita in testi semplici e lineari, in cui Battisti cerca nelle proprie profondità emotive, senza più necessità di recinti interpretativi. Non c’è più nulla d’artefatto, non esistono mediazioni, ci sono solo i suoi dubbi, le sue convinzioni e le sue passioni: La musica come l’amore è un divertimento / Quando si complica invece diventa un tormento / Ad il piacere allora subentra la noia. Nel ritrovare la libertà artistica, Battisti riconquista la serenità familiare, la passione e quel gusto per la sperimentazione che – nonostante le dorate gabbie mogoliane – non lo abbandonò mai.
Ecco svelato l’arcano, l’assassino di Battisti-Mogol è Battisti stesso, ma sarebbe meglio dire che l’assassino non esiste. Nessuno ha ucciso nessuno, dunque; l’artista cambia perché è nel suo codice genetico cambiare, cercare, sperimentare per trovare, trovarsi nuovamente. Le parole dell’artista di Poggio Bustone, peraltro le uniche contenute nel saggio, sono a tal proposito di un’eloquenza illuminante: “Per continuare la mia strada ho bisogno di nuove mete artistiche, di nuovi stimoli professionali. Tutto mi spinge verso una totale ridefinizione della mia attività professionale. In breve tempo ho conseguito un successo di pubblico ragguardevole. Devo distruggere l’immagine squallida consumistica che mi hanno cucito addosso. Non parlerò mai più perché un artista deve comunicare solo per mezzo del suo lavoro. L’artista non esiste. Esiste la sua arte”. Il movente, lo avrete intuito, è l’arte stessa. Il saggio di Rebustini, pertanto, pur centrando l’attenzione sul paroliere, non potrebbe più degnamente omaggiare l’ultima corposa fase del percorso creativo del più amato artista italiano in musica del dopoguerra. Il grande Lucio Battisti, ancora amatissimo e celebrato, nonostante l’assenza e la ricerca di una “nuova idea di perfezione, anche vocale, che disco dopo disco era riuscito in qualche modo a sfiorare”.
Federico Magi, dicembre 2007.
Edizione esaminata e brevi note
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