Franchi Gianfranco

Pagano

Pubblicato il: 23 Settembre 2007

INTRODUZIONE

“Pagano” è un libro scomodo, controcorrente, alternativo, un libro che parla chiaro e denuncia certe aberrazioni della società contemporanea e il disorientamento di un’intera generazione condannata alla perenne precarietà.

Pagano” è un libro di frammenti, spiazzante, visionario talvolta, apre squarci lirici, argomenta sulla storia, compie analisi sociale e antropologica, trasfigura, cambia stilisticamente aprendosi al monologo interiore o a frasi sospese senza complemento oggetto.

È stato definito “antiromanzo esistenziale” (Lupi, nella Prefazione), quindi non incasellabile in nessun genere: si muove tra il saggio, il diario, il pamphlet, il romanzo, si chiude con una poesia, possiamo chiamarlo romanzo solo se con questo termine intendiamo una federazione di generi.

Molte anime dunque per un libro eclettico e talentuoso quanto il suo autore, che stavolta non usa alter ego: Guido Orsini, l’esteta postmoderno che tanto spesso appariva in “Disorder”, opera precedente, è scomparso, si è ritirato per lasciare il palcoscenico a Gianfranco Franchi o, al limite, alla partita IVA che lo rappresenta.
Le osservazioni sono troppo provocatorie e pungenti e vanno fatte in prima persona, assumendosene le responsabilità a viso scoperto. “Pagano” sembra essere l’evoluzione successiva di “Disorder”: dalla dimensione più privata e interiore si passa al discorso politico e sociale, è l’apice di una traiettoria che dall’interno si proietta verso l’esterno e probabilmente avrà un’ulteriore evoluzione. Non che Franchi dimentichi la sfera privata, continua a raccontarci i fatti suoi, come ben nota Lupi, ma lo fa con tale stile da trasformarli in eventi emblematici, rappresentativi di un’intera generazione.

Nota anche Karlsen nella Postfazione (II): “siamo davanti a una commistione insistita ed esibita di pubblico e privato”.

È crisi individuale e generazionale, con ben evidenziate cause socio-antropologiche, che riflette la crisi del sistema intero, dell’economia, di un’Italia fatta da “Italioti” parlanti una lingua forgiata dalla televisione, vero fattore unificante in un paese costituito da tante identità differenti regionali e comunali, ciascuna con il suo dialetto, lingua originaria e originale, essendo quella letteraria artificiosa e inesistente, un sogno dei letterati che si tentò d’imporre a tutti senza risultati brillanti.

ADDENTRANDOSI NEL TESTO

Pagus, Pag, pagano.

Patria, padre.

Parole-chiave rispettivamente in incipit e in clausola del testo, allitterazioni da tenere in mente.

Il libro si apre su uno scenario privato di vacanza all’isola dalmata di Pag (dal latino pagus, villaggio, colonia fondata dai romani). In prima pagina spunta già una parola ricorrente da sempre in Franchi, sia in prosa che in poesia: inadempienza.

Io sono libero sin quando non esistono interazioni imposte. Questo il segreto dell’inadempienza” (p. 11).

Da Pag si passa all’isola Fonteiana a Roma, luogo della vita quotidiana.

Sono un’isola e non mi lascio popolare” (p. 20).

Così si presenta il protagonista, l’isola è dunque un’immagine-cardine: territorio ristretto per definizione, dai confini ben chiari, di non facile accessibilità, può interagire con altre isole per formare un arcipelago, ma mantiene sempre la sua individualità, le sue caratteristiche peculiari.

Ribelle al passato, scontroso al presente, sono ospite del postmoderno e mi gratto una guancia per rubare uno sguardo allo specchio” (p. 15).

Letterato estraniato, non omologabile, il narratore sa di poter risultare scomodo e fastidioso e, al limite, antipatico ad alcuni. E non fa nulla per evitarlo. Ospite del suo tempo, è uomo ricco d’ideali e aspirazioni, ma si ritrova a scontrarsi con una realtà mediocre e scialba, in una nazione che non è patria e ruba il futuro ai suoi giovani. “Sono precario come larga parte della mia generazione” (p. 20).

Il letterato diventa non più voce individuale, ma voce di una generazione intera, che non si sente rappresentata da niente e nessuno, né partiti, né chiese, né movimenti. La cosiddetta “crema dei sessantottini” ha creato una situazione di tale precarietà per i lavoratori da azzerare una qualsiasi forma di progettazione del futuro, solo il presente esiste e da un giorno all’altro si può perdere tutto. Logica conseguenza di questa situazione è un edonismo esasperato e diffuso: se nulla è certo e il domani non esiste, è meglio godere il presente e ricercare piccoli o grandi lussi nell’abbigliamento, nell’alimentazione, nella casa, nella tecnologia. Ai discendenti è meglio non pensare, potrebbero non esserci o comunque s’arrangino.

Per buona parte del libro il tema della precarietà ritorna ossessivamente, è come un muro contro il quale si urta in continuazione, dalle pagine si leva un grido d’allarme, di dolore, di frustrazione che non può che essere condiviso da molti giovani.

Franchi dà voce in modo originale a un malessere diffuso per gettarlo in faccia alle istituzioni, allo stato, alle generazioni precedenti, incapaci di rimediarvi,anzi responsabili di quanto accaduto.

Stiamo tornando alla condizione dei lavoratori dell’Ancient Regime: privati tuttavia del contatto con la natura e di un’autentica vita sociale, uniche loro ricchezze” (p. 22).

Nessuna certezza se non quella di non volersi più ammazzare implica l’impossibilità di progettare: si rischia di rimanere adolescenti per sempre, a carico della famiglia d’origine, incapaci di assumersi le responsabilità di una vita indipendente. E non sembrano esserci soluzioni a breve termine.

Franchi s’arrovella e le prova tutte, accettando lavori diversi – sempre e comunque precari – infine inventandosi libero professionista e finendo divorato dalle tasse, pesante fardello di uno stato-moloch che sembra farsi vivo solo per riscuotere.

Non possiamo negare che Franchi sia un combattente:

Combattere non significa soltanto manifestare. Combattere significa prendere atto che certe certezze e certe sicurezze sono finite per sempre, e che sono stati i nostri genitori e i nostri nonni a levarcele: dobbiamo stabilire i presupposti per una nuova gerarchia dei valori, per qualcosa che sappia rigenerare i cittadini di un popolo abulico, stupido e servo degli angloamericani: con gli islamici che bussano alla porta. Serva italia, alziamo la testa, cerchiamo di capire da dove ripartire” (p. 30).

Riflettendo sulla propria condizione Franchi passa sempre più verso il politico e verso l’analisi storica, che coinvolge l’Italia tutta, “perché italiano è una grossa bugia, non vuol dire niente” (p. 36).

È la voce di un letterato precario, senza un ruolo preciso, a volte considerato come un parassita creatore di bellezza e ricercatore d’intelligenza presso un popolo rimbecillito dalla televisione e privato del libero pensiero, che non sa più cosa significhino questi concetti.

Governati da un imprenditore, ridotti a colonia americana dal dopoguerra in poi, riuniti a forza in uno stato, gli italiani paiono perduti.

Dal particulare si passa all’universale con un’analisi storica della nascita dell’Italia contemporanea. Franchi demolisce definitivamente alcuni miti: da quello della Resistenza (e del bene da una parte sola) a quello degli americani come salvatori (furono “colonizzatori”) e infine distrugge il concetto stesso d’Italia, nata dalle rovine di se stessa nel 1943 e riunita non dalla lingua letteraria ma dal linguaggio televisivo. Certe profezie di Pasolini si sono tristemente avverate.

Se le considerazioni possono risultare azzardate, sono condivisibili le obiezioni dello storico Karlsen, che con correttezza Franchi riporta nel testo.

Consapevole della propria condizione, privo di certezze, irrichiesto e sbagliato, appartenente a una minoranza e da essa soltanto compreso pienamente, Franchi continua a cercare un punto fermo, un navigatore satellitare che possa orientarlo (e il disorientamento è un altro suo leit-motiv tipico, che assume le forme più varie). La pars destruens s’articola in antiamericanismo, antiberlusconismo, anticomunismo marcati, la pars costruens dovrebbe essere costituita dalla Destra politica, ma quale Destra?

Non quella attuale, legata all’imprenditore lombardo, Franchi sogna e vagheggia una sua Destra, ricorda gli anni dell’adolescenza, il liceo “bulgaro” in cui studiava, l’MSI fermo al tre per cento e le discussioni con i “compagni”, la vittoria della Destra alle elezioni scolastiche dopo anni di prevalenza della Sinistra.

Nulla esiste più di quel sogno, assunto ormai nel regno di utopia. L’Autore non si ritiene rappresentato da niente e si sente male, rabbia e frustrazione trovano una voce nel solo modo che gli è congeniale: la scrittura.

L’alternativa – oltre alla rivoluzione nel privato – è senza ombra di dubbio la ribellione giorno dopo giorno, fondata su una ricerca di intelligenza e bellezza e giustizia e sulla condivisione – per quanto possibile, pubblica – di ogni singolo passo di questa ricerca.

Scrivere per fondare una nuova lingua che sappia essere evoluzione dell’artificio stupendo dei letterati del secondo Ottocento, e sappia e voglia prendere le distanze dalla comunicazione catodica o para-catodica” (p. 50).

Franchi è consapevole che in questo modo rimarrà in una minoranza, è un “suicidio da samurai”, si chiama fuori e resta laterale, anarchico di Destra, letterato estraneo all’odioso sistema editoriale legato a logiche industriali, voce dall’ombra che scaglia parole come frecce e canta la bellezza.

Autoestromessosi da un meccanismo perverso che non cambia né con movimenti rivoluzionari, né dall’interno con piccole modifiche, ma fagocita soltanto chi anche solo s’avvicini, il letterato pensa, osserva, interiorizza, cerca un senso all’esistere, una gerarchia di valori e dei punti fermi, delle grandi cause cui dedicarsi in una fase storica nella quale tutto questo sembra non esistere e vi sono solo obiettivi minimi.

Suo compito, a questo punto, è annunciare quanto sta per succedere, nominare le cause.

Stiamo terminando” (p. 78).

Prima che accada, con fantasia, il letterato cerca di ritagliarsi un ultimo ruolo per combattere il niente. L’isola diviene libero professionista, partita IVA.

Inizia la guerra contro lo stato e la sua burocrazia, labirintico meccanismo kafkiano in grado di demolire e imbarbarire chiunque.

Qui Franchi cede alla sua vena visionaria e stupisce. Emergono figure stranissime, una voragine si apre, esseri animaleschi popolano una cena surreale e incarnano le principali ideologia del Novecento.

Gli utenti della burocrazia, costretti a lunghe attese davanti agli sportelli, appaiono imbestialiti, trasformati dalla frequentazione di quei meccanismi stritolanti e perversi. Alienazione e sofferenza piantano il loro vessillo su queste figure che ricordano i quadri di Bosch.

Eppure non poteva finire tutto così, Franchi è pur sempre “Lankelot” il cavaliere, attaccato alla vita e all’utopia.

La chiusa è nel nome di Roma, il luogo dell’appartenenza, celebrata da una poesia piena di passione eppure capace di coglierne i drammi di povertà, corruzione, indifferenza.

Nel nome dell’isola e dell’appartenenza il libro s’era aperto, da Pag si è passati a Roma – con un interludio su Trieste – una Roma molto circoscritta (l’isola Fonteiana, il Gianicolo), una patria in miniatura, così come sono patrie, per Franchi, i singoli Comuni cui ciascuno di noi appartiene.

Franchi sa di non voler espatriare nonostante tutto, è “una casa che cammina”, con i suoi ricordi, il suo passato, le sue radici e il suo ritrovarsi nel quartiere, nel paesaggio gianicolense. Roma gli appare grande, il suo mito fonte d’unità per gli italiani.

Sono convinto che il mio compito sia stare a casa mia e vivere quel che il destino mi ha affidato o ha stabilito. Vivo qui a Roma e romano mi voglio sentire e voglio essere: io sono l’espressione del territorio” (p. 33).

Ed ecco allora in che cosa crede l’Autore: l’amicizia, l’intelligenza, le arti, la bellezza, Roma, Trieste. Le radici, l’appartenenza.

Se fossi un individuo davvero capace d’essere un’isola pulita, senza allucinazioni e malesseri e bestiari, faticherei fino alla morte per vivere di qualcosa; ma solo non sono ancora, perché qualcosa di insperato nella solidarietà tra cittadini estranei al potere, vincolati da qualcosa d’antico e splendido come l’amicizia. C’è qualcosa di bellissimo nell’avere un passato, nel fondare la propria speranza su qualche certezza. Questa certezza ha lo stesso etimo della parola patria: padre” (p. 134).

Patria. Padre. Purezza.

Franchi si è riconciliato con le proprie origini.

articolo apparso su lankelot.eu nel settembre 2007

Edizione esaminata e brevi note

Gianfranco Franchi (Trieste 1978), letterato mitteleuropeo. Ha pubblicato due “laboratori” di poesia: “L’imperfezione-opera III” (2002) e “Ombra della fontana” (2003). È stato coordinatore di due riviste letterarie indipendenti, “Ouverture” e “Der Wunderwagen” tra il 1997 e il 2003. Tra il 2003 e il 2006 è stato responsabile del portale di comunicazione e critica letteraria e dello spettacolo lankelot.com, dove ha scritto recensioni di libri, film e dischi e pubblicato racconti. Quindi ha rifondato il sito collettivizzato lankelot.eu. Nel 2006 ha pubblicato la raccolta di racconti “Disorder. Unknown pleasures” (ed. Il Foglio). Vive a Roma.

Gianfranco Franchi, Pagano”, Piombino, Edizioni Il Foglio 2007. Prefazione di Gordiano Lupi. Postfazioni di Francesca Mazzuccato e Patrick Karlsen.

Approfondimento in rete: CS e nota di FM in Books and Other Sorrows / Intervista di Renzo Montagnoli (Arteinsieme). / Letteratitudine / Rassegna Stampa (dal 9 Settembre: in progress)