Dostoevskij Fëdor Michajlovic

I Demoni

Pubblicato il: 5 Novembre 2006

La politica. Le idee rivoluzionarie. Il delitto. Il male e il bene e la loro distinzione. Dio e la sua esistenza. Il suicidio.

Sono solo alcuni dei temi che emergono in questo grande romanzo di Dostoevskij. Un’opera discontinua, giocata su registri diversi e, come spesso accade, su una folla di personaggi.

I Demoni ebbe gestazione complessa, l’idea iniziale risale alla fine del 1869, quando Dostoevskij comincia a lavorare a un romanzo intitolato “La vita di un grande peccatore” (pensato col titolo “Ateismo” già nel 1868), in cui intende trattare due temi: descrivere l’esistenza e la psicologia di un uomo non comune e rappresentare l’antitesi tra i “principi autonomi russi” (ortodossia ecc.) e le idee nichiliste e distruttrici. L’opera non fu mai terminata e la svolta fu provocata dalla scoperta dell’ “affare Necaev”, a cui tutti i giornali russi dedicarono ampio spazio (Dostoevskij, pur trovandosi a Dresda, li leggeva ogni giorno).
Sergej Necaev, di umili origini, autodidatta, era un seguace di Bakunin. Fanatico, aveva creato delle cellule segrete che dovevano preparare la rivolta. Un membro di una cellula però disse di volersi ritirare dall’organizzazione. Temendo che tradisse, Necaev lo attirò con un tranello nei giardini dell’Accademia agricola di Pietroburgo e, insieme con altri tre compagni, lo uccise e lo seppellì. Il delitto fu scoperto rapidamente e i responsabili condannati.
Il fatto colpì molto Dostoevskij, che ci lavorò e trasformò Necaev in Petr Stepanovic Verchovenskij, uno dei personaggi più infidi del romanzo, un mistificatore dalle mille parole, un personaggio abbietto, che dice di voler fare la rivoluzione, ma in fondo non crede in nulla.

Attraverso la fantasia di Dostoevskij però i fatti si dilatano e soprattutto il romanzo si arricchisce di vicende e personaggi di grande spessore come Stavrogin e non può essere ridotto ad un mero pamphlet politico antirivoluzionario.

Certamente qui i rivoluzionari non vengono presentati positivamente, appaiono spesso come figure tetre, cupe, vuoti e sciocchi, “vanitosi fino all’impossibile”, che si pavoneggiano e s’ingiuriano. Sono gente pericolosa, annoiata, stupida, che viene sottovalutata nella sua pericolosità e che farà molti danni.

Da questo punto di vista il giudizio di Dostoevskij è netto, i rivoluzionari vogliono far credere di aver l’appoggio del popolo, ma in realtà non hanno nulla ed anche chi dovrebbe controllarli, come il governatore Lembke e sua moglie, è incapace di farlo e, alla fine, ridicolo.

L’inizio del romanzo ha un tono lieve, ironico e grottesco con la presentazione di Stephan Trofimovic Verchovenskij, uno scrittore della vecchia generazione, che crede d’essere rivoluzionario, un po’ ridicolo e infantile, ma anche sentimentale, candido e ingenuo, leggiadro e tenero, “il più innocente di tutti i fanciulli cinquantenni”.


È come se Dostoevskij volesse avvicinarsi per gradi alla rappresentazione del Male e potesse farlo solo partendo da un tono lieve e leggiadro.

Lo stesso narratore del romanzo è un modesto funzionario, che partecipa alle vicende. È un amico di Stephan Trofimovic e racconta tutto con ordine, dopo che i fatti si sono svolti. A volte pare non capire bene quel che accade, cosicché si creano suspence e mistero. Alla fine tutto si svela e la narrazione appare distaccata, lucida, precisa, capace di raccontare i nudi fatti senza commentarli, come se non si potesse fare altro.


Il romanzo ha una
grande varietà di toni e personaggi, molti punti di vista: scene grottesche, discussioni politiche, dialoghi filosofici, descrizioni di ambienti e persone. A volte le figure appaiono come su una ribalta
teatrale, con veri colpi di scena, oppure vi è una coralità di voci, di pettegolezzi, un’atmosfera misteriosa che poi si svela e si delinea sempre più.
Al centro di tutte le vicende, come una presenza inquietante e misteriosa, si eleva il personaggio di
Stavrogin, il più profondo e il più complesso di tutti.
Fin dall’inizio si distingue per la sua cattiveria, è il male allo stato puro, è molto temuto e anche amato, sa essere violento, ma pure gelido, tranquillissimo, sorridente e
“indiscutibilmente bello”. Gli altri personaggi sembrano esser fatti apposta per far emergere Stavrogin nella sua assolutezza, di lui si parla spesso con un senso di mistero o d’attesa, lui c’é, anche se fisicamente non appare in tutte le scene del romanzo.

Stavrogin è affascinante come solo il Male sa essere, sa assumere toni deliziosi, all’apparenza è gentilissimo, eppure sotto quel sorriso e quel fascino si avverte l’oscura presenza del Male, il Male compiuto per scelta deliberata e con grande tranquillità.


Scrive il narratore:
“Se qualcuno l’avesse colpito sulla guancia, egli, secondo me, non lo avrebbe nemmeno sfidato a duello, ma avrebbe senz’altro, lì sul posto, ucciso l’offensore: era appunto di quelli, ed avrebbe ucciso con perfetta coscienza, e non in un momento d’esaltazione. (…) Anche con l’infinita collera che s’impadroniva talvolta di lui, poteva tuttavia conservare sempre il pieno dominio di sé, e perciò anche capire che per un omicidio non commesso in duello lo avrebbero mandato certamente ai lavori forzati; ciò nonostante, avrebbe ucciso l’offensore, e senza la minima esitazione”.

Stavrogin ha spesso uno “sdegnoso sorriso mondano”, lui – dice Dostoevskij – è “tutto”, è il centro dei Demoni, in lui troviamo il Male, le tenebre, la voluttà, il mistero, il suicidio finale, spesso emerge in dialoghi filosofici, come con Satov, che ne riconosce il fascino, ma gli dice anche che ha perduto la distinzione tra Bene e Male “perché avete cessato di riconoscere il vostro popolo..”. (e per Dostoevskij l’anima del popolo russo è anche nella religione ortodossa).


Laddove lo spessore della figura di Stavrogin emerge pienamente è nel capitolo

intitolato “La confessione di Stavrogin o Da Tichon”, capitolo che ebbe una vicenda editoriale travagliata e fu di fatto pubblicato solo nel 1922.

Stavrogin si reca dal monaco Tichon e gli fa leggere la confessione scritta dei suoi delitti. Stavrogin è, nel male, padrone di sé stesso, freddo, lucido.

Il peggior crimine commesso da Stavrogin è stato violare una bambina, che poi si impicca. Lui capisce l’ intenzione della piccola e non fa nulla per impedirlo, semplicemente attende e poi va a vedere la scena.

Il racconto che Dostoevskij ci fa è tremendo, “sembra di abitare dentro il Male” – come dice Citati (nel suo libro “Il Male Assoluto”) – e nello stesso tempo Stavrogin è gelido, sembra che parli di un altro e non di sé stesso, si assume tutte le sue responsabilità, senza scusanti, ma è come distaccato, straniero.
L’essenza di Stavrogin è il vuoto, l’indifferenza, una sorta di sfinimento, dal quale non lo salva neanche il Male più totale.

Nel suo dialogo con Tichon, a un certo momento, emerge il tema di Dio e della fede e il monaco osserva: “L’ateo assoluto sta sul penultimo gradino della più perfetta fede (e non si sa se lo varchi o no), mentre l’indifferente non ha più nessuna fede, tranne la cattiva paura, ed anche quella di rado, se è un uomo sensibile”.

Poi si cita l’Apocalisse, dove si parla degli annunci alle Sette Chiese, in particolare alla Chiesa di Laodicea, rifiutata perché “tiepida” e Tichon osserva che Stavrogin non vuol essere solo “tiepido”.


Divorato dal senso di colpa, Stavrogin vorrebbe espiare (tema del delitto e della pena caro a Dostoevskij), cercare un castigo, una croce, ma neppure questo è possibile, la sua stessa confessione nasce da un atto d’orgoglio, è come
“una nuova sfida improvvisa e imperdonabile alla società. C’è il desiderio d’incontrare al più presto qualche nemico”.

Stavrogin vuol essere al di là del bene e del male, fa il male per noia
e per essere superiore a tutto, ne è consapevole e lo dice, sembra che desideri farsi odiare da tutti e tutti sfida con la sua confessione.
Osserva Tichon:
“…e voi siete capitato su un grande cammino, su un cammino inaudito. Ma pare che voi odiate e disprezziate già in precedenza tutti quelli che leggeranno ciò che è scritto qui, e li sfidiate a battaglia. Non vergognandovi di confessare il delitto, perché vi vergognate del pentimento?”


La grandezza di Stavrogin sta anche nella sua consapevolezza, però la redenzione è impossibile, troppa rabbia e troppo odio ci sono in questo demone.
“Cioè la vostra rabbia provocherà la rabbia di rimando e, odiando, vi sentirete sollevato più che se aveste accettato la loro compassione”.
Di fatto Tichon dice a Stavrogin che manca di fede e per questo fa fatica a sopportare la sofferenza che si autoimpone.

Nonostante il monaco prospetti qualche possibilità a Stavrogin (“Se avete la fede di poter perdonare da voi stesso e di raggiungere il proprio perdono con la sofferenza in questo mondo, se un simile scopo vi proponete con la fede, è segno che credete in tutto! Come avete fatto a dire dianzi che non credete in Dio?”), la salvezza non c’é e Stavrogin si uccide.
Il romanzo però non si chiude con questa scena cupa, ma in tono più lieve, così come si era aperto, parlandoci delle ultime vicende di Stepan Trofimovic.
In sintesi, abbiamo – come osserva Citati –
“l’impressione che la nostra esperienza non sia ancora compiuta” e una certa inquietudine rimane.

Articolo apparso su lankelot.eu nel novembre 2006

Edizione esaminata e brevi note

Fiodor Dostoevskij (Mosca, 1821 – Pietroburgo, 1881), scrittore russo.

Fiodor Dostoevskij, “I Demoni”, Mondadori, Milano 1972.

Traduzione di Rinaldo Küfferle.

Introduzione di Remo Cantoni. Cronologia e antologia critica a cura di Arrigo Bongiorno.

Prima edizione: “Besy”, 1872.

Dostoevskij in Lankelot: “Il sosia” (Franchi), “Le notti bianche” (Migliore), “Delitto e castigo” (Monego).

Approfondimento in rete: Antenati.