James Henry

Giro di vite

Pubblicato il: 9 Novembre 2006

STORIA DEL RACCONTO

Il “Giro di vite” fu pubblicato a puntate sul Collier’s Weekly dal gennaio all’aprile 1898.

James ebbe il primo spunto per la storia nel 1895, quando, dopo il clamoroso insuccesso del suo dramma teatrale Guy Domville, andò a trovare il suo amico Edward White Bennett, arcivescovo di Canterbury, ad Addington Park, la sua residenza di campagna vicino a Londra.

Bennett gli raccontò la vicenda – era il 10 gennaio 1895 – a sua volta sentita da una donna, di alcuni bambini affidati, dopo la morte dei genitori, alla servitù in una casa fuori città. I servi depravati li avevano corrotti, poi erano morti e tornavano come fantasmi a visitarli per impossessarsene definitivamente.

Due anni dopo, in pochi mesi, James scrive “Giro di vite”, riprendendo gli spunti offerti dal racconto dell’arcivescovo e costruendo una storia agghiacciante e ricca di suspence.

Per presentare i fatti si serve però di una cornice, come per inserire un filtro tra i lettori e la materia narrata. James ricrea una situazione-tipo classica: un gruppo di persone, non ben definite, riunite in una vecchia casa di campagna, si raccontano storie di fantasmi.

Uno degli ospiti, Douglas, parla di un manoscritto in suo possesso, affidatogli dall’autrice, una donna morta da vent’anni, che fu l’istitutrice di sua sorella. Egli la conobbe e, sebbene fosse di dieci anni più vecchia di lui, entrarono in amicizia, tanto che lei – il cui nome resterà sconosciuto – gli affidò l’inquietante storia che costituisce il romanzo.

Douglas, fattosi pervenire il manoscritto da Londra, lo leggerà e la parola passerà così direttamente all’istitutrice.

E inizierà un percorso nel mistero e nella tenebra.

LA VICENDA

Una giovane istitutrice, di umili origini – è figlia di un pastore – e proveniente da una famiglia numerosa, accetta l’incarico offertogli da un affascinante e giovane gentiluomo, di occuparsi dei suoi due nipotini orfani, ospitati presso una vecchia villa in campagna di sua proprietà.

Il personaggio dello zio è e resta una figura misteriosa, è “il padrone”, presente-assente, un deus ex-machina che possiede tutto, ma non s’interessa a quel che succede in una sua proprietà, né ai nipoti. L’istitutrice rimane molto colpita da lui, oseremmo dire che ne è quasi innamorata, certamente è piena di desiderio di riuscire nell’impresa e di mostrarsi capace ai suoi occhi.

Condizione fondamentale per mantenere l’incarico è che lei dovrà occuparsi di tutto e né scrivergli, né lamentarsi mai qualsiasi cosa accada.

La residenza del resto è provvista di domestici ed è affidata a una pratica governante, la signora Grose.

L’atmosfera della narrazione è fin dall’inizio particolare. Una grande dimora nella campagna inglese, circondata dal parco con un laghetto, ampie stanze riccamente arredate, corridoi, scale, due strane torri ai lati dell’edificio, letti con cortine, alti specchi, una governante fedele e misteriose presenze che iniziano a comparire…è un ambiente nuovo e affascinante, per la giovane inesperta.

La ragazza viene immediatamente conquistata dalla bontà e dalla grazia dei due bambini: Flora, la più piccola, ha otto anni: “Era la bambina più bella che avessi mai visto” (p. 16), di una “bellezza angelica”; il maschietto, Miles, un poco più grande, appare già un perfetto gentiluomo, educatissimo, “incredibilmente bello” (p. 27), tanto che l’istitutrice non riesce a spiegarsi il motivo della sua recente espulsione dalla scuola.

Curiosi, allegri, gentili, i bambini appaiono l’incarnazione dell’innocenza infantile, sono irreprensibili, giocosi, intelligenti, sembrano perfetti. Incantano.

I due bambini erano entrambi di una tale gentilezza – era il loro unico difetto, anche se non faceva di Miles un imbranato – che li rendeva (come dire?) quasi impersonali e senz’altro del tutto impunibili”(p. 39).

Per l’istitutrice è l’ingresso in un nuovo universo, cui lei si abbandona, “imparai a divertirmi, e anche a divertire, e a non pensare al domani” (p. 29).

Eppure strani fenomeni accadono in quella dimora: fantasmi, apparizioni. Due figure spettrali infestano la casa, vi penetrano, comunicano misteriosamente con i piccoli, che li vedono, li cercano, ne sono soggiogati.

L’atmosfera diviene sempre più angosciosa e inquietante, descrizioni magistrali e senso d’attesa accrescono la tensione, fino al terribile finale.

Poco per volta, con l’aiuto della governante, l’istitutrice scoprirà che le figure misteriose sono Quint, il cameriere personale del padrone, e la sua amante, la signorina Jessel, precedente istitutrice dei bambini.

Entrambi sono morti, ma i due depravati avevano condizionato e coinvolto nella loro vicenda i piccoli ed ora ritornano per comunicare con loro e portarseli via.

La grandissima abilità di James sta nel creare un’atmosfera perennemente sospesa ed ambigua, in un crescendo di tensione e di parossismo nell’istitutrice, che si propone come autentica missione quella di salvare i suoi allievi, innescando una sorta di sfida con le misteriose parvenze.

La cupezza dell’atmosfera, certe scene al buio o a lume di candela, le visioni soprannaturali permettono un accostamento con i racconti di Poe, un vero maestro del genere fantastico, che qui tanto interessa James.

Vi è un continuo gioco tra vedere-non vedere, presenza-assenza: l’istitutrice vede i fantasmi e sa che i bambini vedono anche se negano, la governante non vede, gli spettri appaiono e scompaiono, tutto resta indefinito, sospeso e proprio questo senso di ignoto incombente rende il racconto avvincente e particolarmente angoscioso.

L’abilità nella costruzione narrativa è tale da far sospettare un grandioso esercizio di stile – ma di alto livello –del resto è noto che James scrisse il racconto spinto dalla possibilità di guadagno.

In breve tempo l’istitutrice si rende conto che i suoi due allievi sono troppo perfetti, sono sempre solidali tra loro, mostrano una tale inossidabile grazia da risultare falsa, artefatta, una sorta di schermo con il quale escludere l’insegnante dal loro mondo fatto di contatti con Quint e la Jessel.

Mi muovevo in un mondo di loro invenzione, mentre loro non avevano nessuna occasione di ricorrere al mio; cosicché il tempo lo passavo tutto a rappresentare per loro la persona o la cosa riguardevole che il gioco del momento richiedeva, cosa che, grazie alla mia tempra superiore, esaltata, risultava in una felice e illustrissima sinecura” (p. 57).

“… il fascino spontaneo dei miei compagni mi stregava, anche se c’era l’ombra della possibilità che fosse studiato” (p. 74).

Man mano che la giovane scopre la situazione, s’accresce in lei l’ostinazione a voler salvare i bambini, ad affrontare il male che serpeggia nella casa con un atteggiamento spesso inquisitorio, possessivo cerca di far parlare i piccoli… ma a volte sembra sia lei a imporre una sua fantasia agli allievi…l’ambiguità rimane. Tanto che la critica, soprattutto inglese e americana, si è sbizzarrita nell’interpretare questo romanzo breve, ricorrendo anche a Freud.

Senza addentrarsi eccessivamente nella trama per non rovinare al lettore il piacere di scoprirla da sé, si può notare che ben poche figure sono più inquietanti di questi due bambini complici e assenti, ironici, che non parlano MAI del passato, eppure ne sono pesantemente condizionati, essi non sono quello che sembrano, oppure è l’istitutrice a renderli perversi nella sua ossessione: “….l’elemento dell’ineffabile, dell’intoccabile, tra di noi, crebbe più di qualsiasi altra cosa…” (p. 98).

Il gioco delle sensazioni è continuo e il periodare di James, così sinuoso, serpentino, ben si addice alla cupa atmosfera che circonda la grande dimora, infestata dal male.

Osserva Citati ne “Il male assoluto”:

Il male, come lo conosceva un grande teologo moderno quale Henry James, è l’Indicibile: qualcosa senza contenuto preciso; una fascinazione, un’irradiazione, che parte da un punto di tenebra e contagia orribilmente le anime; e questa irradiazione diventa ancora più insinuante, corruttrice e persuasiva, se l’emana una figura senza corpo e rilievo come uno spettro, che è appunto pura fascinazione” (p. 483).

Al di là delle più stravaganti interpretazioni che di questo romanzo breve possono esser state date, l’atteggiamento migliore è quello di lasciarsi trasportare dalle onde della prosa di James, dal suo insieme di echi, aloni, risonanze, descrizioni, vibrazioni della mente dei personaggi, riflessi, percezioni, cogliere l’atmosfera e le mille sfumature di cui l’autore la dissemina con abilità magistrale.

Articolo apparso su lankelot.eu nel novembre 2006

Edizione esaminata e brevi note

Henry James (New York 1843 – Londra 1916) è uno dei più importanti romanzieri americani tra Otto e Novecento: la sua opera si distacca dalla tradizione del romanzo realista dell’Ottocento per proiettarsi verso il romanzo psicologico e le novità narrative del Novecento.

Di famiglia agiata, James ebbe un’educazione raffinata e colta e trascorse poi buona parte della sua esistenza in Europa (Parigi, ma soprattutto Londra).

Viaggiò in Inghilterra, Francia, Italia (Firenze, Roma, Venezia), Belgio, Olanda, Germania.

Opere principali i romanzi: Ritratto di signora (1881), Le bostoniane (1886), Principessa Casamassima (1886), Le ali della colomba (1902), Gli Ambasciatori (1903) e La coppa d’oro (1904).

Racconti: Il carteggio Aspern (1888), Imbarazzi(1896), Giro di vite (1898), La specie migliore (1903). Scrisse per il teatro con poco successo, realizzò anche saggi letterari e scritti autobiografici.

Henry James, Giro di vite – Il carteggio Aspern”, La biblioteca di Repubblica, Roma 2004. Introduzione e traduzione di Nadia Fusini.

Altre opere di James recensite su lankelot.com:

Il Mentitore” (a cura di Franchi); “Ritratto di signora” (Monego).

Approfondimento in rete: The Henry James Scholar’s Guide to Web Sites / The Literature Network / Wikipedia / Antenati.