Magris Claudio

Alla cieca

Pubblicato il: 26 Giugno 2006

Un romanzo sfaccettato, dai mille aspetti e nel quale i piani spazio-temporali s’alternano, si mescolano in una continua altalena che crea un senso di disorientamento, tanto che ci si chiede da quali abissi di tenebra abbia attinto l’Autore per creare un’opera così vasta, proteiforme e onnicomprensiva.

Un grande libro per una grande mente capace di inabissarsi nei gorghi della Storia e di descriverli attraverso il potere della parola e di una prosa perfetta, senza una sbavatura, mai banale, profonda e coltissima.

Ha molti volti l’io narrante di questo romanzo, è un io scisso, molteplice, schizoide che parla, parla e ricorda le sue molte vite attraverso un lungo monologo rivolto allo psichiatra che l’ha in cura presso il Centro di Salute Mentale di Barcola, vicino a Trieste. Chi è quest’io e quali baratri, quali inferni ha attraversato? Quali nevrosi e quali tremende verità scaturiscono dal suo racconto, che a tratti si fa stream of consciouness, confessione, riflessione amara sulla storia, sulla vita e sulla memoria?

É Salvatore Cippico – o Cipiko o Čipico – comunista sopravvissuto al lager di Dachau, reduce poi dall’isola di Goli Otok, la terribile Isola Calva dove Tito, dopo la rottura con Stalin, fece deportare molti oppositori al regime. Cippico è colpevole solo, come numerosi altri italiani, monfalconesi in particolare, di aver accettato di recarsi in Jugoslavia a lavorare per l’edificazione del comunismo reale e poi di essersi ritrovato improvvisamente nemico dello stato, deportato, torturato, tradito dai suoi stessi compagni per uno dei tanti scherzi mortali della Storia, forza stritolatrice che macina a mescola tutto al suo interno con brutale energia.

L’io narrante è anche Jorgen Jorgensen, vissuto nell’Ottocento, danese, re d’Islanda per tre mesi e poi condannato ai lavori forzati e deportato in Tasmania…. È Tore, Jan Jansen, Nevèra, il partigiano comunista, Strijèla, ex comandante italiano che dopo l’8 settembre diviene capo di una formazione partigiana in Istria, è il cybernauta….

Si tratta dunque di un viaggiatore, un marinaio, ma anche un prigioniero e un deportato, un avventuriero, la vittima di un tradimento, un uomo che ha saputo essere contro e resistere.

Le certezze dell’io unico, inscindibile, sono scomparse nel corso del Novecento – per queste considerazioni e per quelle più specifiche sulla storia di questo secolo è opportuno richiamarsi all’ottima recensione di Patrick Karlsen – e dunque il problema dell’Identità si è fatto pressante, fondamentale, insieme al problema della Storia, nella quale il singolo si muove ed agisce o subisce.

Storia e Identità paiono i cardini attorno ai quali s’impernia il romanzo e se l’Identità è nevrotica, scissa, la Storia è una forza cieca, brutale, che periodicamente ribalta i rapporti e rimescola le carte che sembravano ormai schierate definitivamente.

Le dittature parevano aver dato un ordine seppur basato sul sangue e sulla morte – l’ordine delle capanne a Dachau o quello dei regimi comunisti a Est o dei deportati a Goli Otok – e sono tutte crollate, travolte, ridotte a un cumulo di macerie e “alle domande non c’è mai risposta” (p. 15).

Le storie narrate qui – alcune avventurose, avvincenti come in ogni bel romanzo – paiono voler contenere tutte le storie del mondo, si passa da un emisfero all’altro, dall’Europa alle Terre Australi, eppure i massacri, gli orrori non cambiano, si susseguono con motivazioni e nomi diversi: stermini d’indigeni per portare loro la civiltà, esecuzioni capitali, cannibalismo tra bianchi, torture, deportazioni in condizioni disumane. Non vi è tregua in questo grande gorgo agitato da continui vortici che girano nell’una o nell’altra direzione: “La storia è un cannocchiale accostato all’occhio bendato. Ogni tanto, come dopo il combattimento con la Preneuse, guardo nella canna della pistola. Forse laggiù in fondo c’è qualcosa, la striscia di Oriule, davanti a San pietro in Nembi, divide il mare verde da quello blu, la sottile soglia della vita vera, ma I’m damned if I see it, in quel nero non c’è nulla né da una parte né dall’altra, potrei anche premere il grilletto, alla cieca, tanto non c’è nessuno” (p. 86).

La Storia è “una pietra che cade in acqua e scompare senza lasciar traccia, una lancia che sibila nella foresta” (p. 92) e stravolge le esistenze: quella di Jorgen, di Cippico e di tutti.

Tradire, mentire per salvarsi può essere facile quando si viene presi nelle maglie di eventi più forti di noi: ciò che più sconvolge e tormenta Cippico è proprio il tradimento, il fatto di esser stato condannato non da nemici, ma dai suoi stessi compagni, non solo, ma di quella vicenda a lungo si è tentato di cancellare anche la memoria, non se ne doveva parlare, come se non fosse mai esistita. Invece quest’io narrante parla in continuazione, parla proprio di ciò che si vorrebbe dimenticare – Goli Otok, le stragi degli aborigeni – per la Storia fatti marginali, usuali vortici necessari alla rivoluzione o alla civiltà.

Cippico è un personaggio che non si è mai arreso, non ha mai ceduto, anche se ha visto crollare tutto quello che riteneva certezza: l’onnicomprensivo Partito/mare che riordina tutto, la prospettata rivoluzione, il nuovo ordine di giustizia per il mondo. Cippico si è sentito ingannato e tradito e adesso parla “perché senza le parole e la fede nelle parole non si può vivere; perdere quella fede vuol dire cedere, mollare”(p. 30).

Se esiste una possibilità di contrapporsi, anche con poco, alle forze cieche che da sempre fanno degli uomini minuscoli granellini gettati qua e là, questa è data dalla parola, dal racconto e dalla memoria: “le cose bisogna raccontarle continuamente, se no si dimenticano” (p. 178).

Jorgen scrive le lapidi dei forzati sepolti nell’isola dei morti quasi a voler sintetizzare le loro vite e si mette a studiare la lingua degli indigeni che vengono massacrati per farne un dizionario.

Nessuno deve scomparire come se non fosse mai esistito” (p. 279): “Che almeno sopravvivano le parole, più longeve di quella razza antica, la più antica dei mari del Sud (p. 281).

Minuscola consolazione, eppure se qualcuno fin dall’antichità non avesse tramandato la storia trasfigurandola nel mito ora non ricorderemmo più quella vicenda di Giasone che costituisce un leit-motiv del romanzo: lo percorre tutto, come una specie di fiume sotterraneo che ogni tanto riemerge a far sentire la sua voce.

Giasone è lo sterminatore, il viaggiatore, Giasone che sposa Medea e la tradisce e ne sussegue la loro tragica vicenda. E poi c’è il vello d’oro sempre più sporco e macchiato di sangue, di liquidi umani, rovinato, consunto come le bandiere rosse ormai ridotte a stracci sbiaditi e sbrindellati, insignificanti simulacri di un mondo che non c’è più.

I greci avevano capito il non senso del mondo e che la Storia va a zig-zag, non progredisce, semmai disorienta e le stragi possono nascere anche da una sola svista, da un errore.

Giasone con gli Argonauti arrivano nella terra dei Dolioni e vengono accolti in amicizia, poi gli eroi partono durante la notte, ma venti contrari li respingono, a loro insaputa, al punto di partenza. I Dolioni li scambiano per pirati e si scatena la battaglia, nel buio, alla cieca. Soltanto all’alba le due parti si riconoscono, ma la strage è ormai compiuta.

La Storia va avanti così: c’è il Partito che sa cosa fare e ti dice qual è il tuo bene, decide. L’individuo crede e obbedisce e poi si ritrova a Goli Otok o in Tasmania o in uno dei tanti inferni di cui è fatta la terra.

La Storia ha cambiato gioco e le parti si sono ribaltate.

La condizione umana, a questo punto, ha la sua metafora nel viaggio, che è anche dimensione d’indipendenza dello spirito, inquietudine, apertura al nuovo. Tutti i personaggi –volenti o nolenti –coprono grandi distanze, sono in continuo movimento: viaggi allucinanti e densi d’orrore come quello dei deportati, viaggi notturni durante i quali ci si racconta, nel buio, e le parole assumono un valore catartico, salgono alla bocca come bollicine e scoppiano narrando talvolta colpe o tradimenti, perché nessuno è innocente nella Storia, negli inferi della Storia.

Il viaggio è anche l’inizio del ritorno, ma qui non vi è ritorno, qui si va verso la dissoluzione e la dispersione nel niente.

Luogo privilegiato del viaggiare è il mare, elemento costante dei libri di Magris, grande presenza, “confine del niente”.

Il mare è la vita, la pretesa tracotante di vivere, di espandersi, di conquistare – dunque è la morte, la scorreria che depreda e distrugge, il naufragio. Le navi partono festose a bandiere spiegate; le flotte arrivano su continenti e isole remote, saccheggiano, devastano, distruggono, Nelson bombarda Copenaghen, Giasone ruba il vello e uccide Absirto, noi arriviamo nella Terra Australis incognita; qualcuno di quei neri è ancora vivo ma per poco, abbiamo attraversato il mare per massacrarli tutti” (p. 288).

Mare spesso oscuro e quando non si vede nulla “ci si può anche mettere a sparare, così, per gioco, come tirare sassi in un baratro oscuro, se non c’è nessuno non si fa male a nessuno, e anche se c’è qualcuno ma non lo si vede è come se non ci fosse nessuno, il sasso rompe una testa ma il baratro è troppo fondo perché possa arrivare un grido. Nelson non vedeva morire nessuno guardando nel cannocchiale con l’occhio bendato, non sentiva nemmeno l’urlo di chi cadeva sotto i suoi cannoni” (p. 304).

Mare luogo della “persuasione” in riferimento al pensiero di Michaelstadter, in cui non c’è più nulla da desiderare, da progettare e le ansie sono finite, quel mare in cui si disperde Enrico Mreule di “Un altro mare”.

Donne del mare, inquietanti figure sono le polene, così ricorrenti in questo romanzo dove i personaggi femminili in carne ed ossa, anch’essi molteplici – Maria, Marie, Mariza, Marja, Norah, Mangawana – sono tragiche, vittime o creature abbandonate dal “disertore dell’amore” che talvolta è l’io narrante.

La polena di Giasone profetizzava, nelle navi è colei che scruta il buio orizzonte per scoprire ciò che ai marinai è precluso e fatale sapere, le polene sono imperturbabili, beffarde, attonite, indifferenti.

Ho capito che il viso di queste donne che accompagnano gli uomini sul mare dev’essere levigato, sereno, imperturbabile; guai se mostrasse passione, personalità” (p. 165).

Sono Euridici che non si voltano e celano il loro vuoto, il loro niente.

“…dentro non c’è niente e nessuno può fargli nulla, a questo niente, nessun pugno può stringerlo e stritolarlo, ecco perché mi piacciono tanto, queste figure di prua” (p. 166).

Le polene non hanno identità, passione, dolore, forse per questo l’io narrante ama scolpirle lui stesso nel legno e contemplarle, addirittura una polena di ghiaccio compare nel romanzo, tanto affascinante quanto effimera: com’è nella sua natura non può attendere il ritorno del navigante e si scioglie lasciando come unica traccia un’umida fanghiglia.

C’è un senso del niente assediante che circonda l’io e tutto il romanzo, niente fascinoso a suo modo, baratro insondabile, smarrimento, gorgo.

Verso il finale il senso di morte s’accentua, il mare, forza cieca, potrebbe travolgere tutto, tutto il sangue, il dolore, gli inferni, che la voce narrante di questo romanzo ha attraversato, la terra è solo una nave galleggiante sopra l’abisso delle acque, che prima o poi la sommergeranno.

La morte è un vecchio pirata guercio, non vede davanti a sé e grida i suoi ordini alla cieca” (p. 331).

Luce non vi è per la Storia, nessuno sfugge a questa Rete senza maglie. Magris non concede nessun montaliano varco, solo il mare è una presenza:

il mare è un sudario ma sotto non c’è nessuno e non ci sarà mai più, quei bruscoli, granelli, soffi di cenere che sono stati carne non ci sono, nessuno li riacciufferà più, evasi per sempre, sputacchi di schiumoso pulviscolo inafferrabile, ticket of leave perpetuo, la rivoluzione ha vinto, la Legge non c’è più, pure i codici sono stati cremati, i codici del re dei tribuni del popolo i codici che condannano i forzati. Anche quello genetico è bruciato, volatilizzato, abrogato” (p. 335).

Quel senso di dissoluzione finale che già concludeva “Danubio” – itinerario di viaggio senza il ritorno – si è qui ingigantito ed è divenuto tragico, coinvolgendo l’essenza stessa dell’uomo, in un generale annullamento che non prevede alcuna palingenesi o resurrezione.

Articolo apparso su lankelot.eu nel giugno 2006

Edizione esaminata e brevi note

Claudio Magris, Alla cieca, Garzanti, Milano 2005.

Claudio Magris è nato a Trieste nel 1939, dove insegna all’Università Letteratura tedesca. Collabora da molti anni al «Corriere della Sera». Autore di fondamentali saggi sulla letteratura mitteleuropea, prima di Alla cieca ha scritto altre opere di narrativa e di teatro, tra cui ricordiamo: Danubio, Un altro mare, Microcosmi, Stadelmann, La mostra.