Sorrentino Paolo

Il divo

Pubblicato il: 3 Giugno 2008

C’è chi lo chiamava Belzebù, pur se egli si rimetteva a Dio, rifuggendo la logica del caso. C’è chi lo ha chiamato in molti modi, spesso antitetici nel significato. C’è anche chi lo ha amato sinceramente, seppur strano, e discretamente se ne prendeva cura. C’è chi lo ha odiato profondamente, perché simbolo del malaffare, dei sincretismi bui e dalle conseguenze dolorose tra poteri dello Stato e poteri occulti. Difficile attraversare tutto il tempo dell’Italia repubblicana, dai suoi albori al suo declino morale, ideale e spirituale, restando sempre identico a se stesso. Una figura gommosa, che più la manipoli e più ritorna la stessa: ci si stanca di lottare contro i muri di gomma. Si soccombe, alla lunga. E proprio come un impenetrabile muro di gomma, quanto mai grottesco nella sua immobile e impassibile ferocia, il sette volte Presidente del Consiglio e Senatore a vita Giulio Andreotti ci viene raccontato per immagini da Paolo Sorrentino, attraverso gli eventi nodali immediatamente precedenti e direttamente successivi a Tangentopoli. Il divo, a conti fatti è questo l’appellativo più rappresentativo tra i tanti, che il regista campano sceglie per sintetizzare i motivi di un’opera che, come oramai ci ha abituato, si muove tra i generi mescolando il grottesco al noir nel tentativo di dar vita un cinema lontano dalla linearità e velato d’impegno civile. Ne Il divo, evidentemente, c’è qualche ambizione in più rispetto ai lavori precedenti, non fosse altro per l’importanza della figura politica che si è scelto di rappresentare, colui che nell’immaginario degli italiani è stato davvero il grande tessitore, ancora oggi il più inquietante depositario dei segreti – non più troppo segreti, a dire il vero – dell’Italia repubblicana.

Sorrentino filma, a ben guardare, più il privato che il pubblico di Giulio Andreotti, tra riunioni di corrente, intimità familiare, rapporto con la fede e dubbi esistenziali dissimulati da un volto sovente immobile. Ma l’opera vive all’opposto dell’agiografia, è lontanissima dalla comprensione umana e dall’adesione politica; è una critica feroce e totale a un uomo che come nessun altro ha rappresentato il Sistema, del quale resta il più “degno” rappresentante vivente. Attraverso la figura dello statista democristiano Sorrentino ripercorre a sbalzi temporali gli anni oscuri dell’Italia del dopoguerra, quelli delle BR, della P2, degli omicidi-suicidi di Stato, del potere occulto, dei servizi segreti deviati e della politica connivente con “cosa nostra”. Andreotti attraversa gli eventi non mutando le sue consuetudini, provando scosse di sincera umanità solo per la morte del collega di partito Aldo Moro, considerando in sostanza il male – nell’idea di Sorrentino – l’unica strada possibile per arrivare al bene. Il tutto condito dall’arcinoto humour sarcastico che lo connota da sempre. Fino a che si arriva al processo per mafia, all’autorizzazione a procedere del Parlamento, al confronto con i pentiti, al rinvio a giudizio e alla caduta in prescrizione del reato.

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Come al solito Sorrentino ha il pregio-difetto di non cercare – e di conseguenza di non trovare – il limite, un confine entro cui costruire il suo cinema. Seppur vivace e interessante, di certo il più distante dalle noiose regie televisive italiche, il regista campano perde anche in questa occasione la misura e deborda in idee caricaturali e grottesche. Se il grottesco è una cifra consueta al suo cinema, che nella fattispecie può far felice coppia col cinico, vista la vicenda narrata, il suo sconfinare dalle prime sequenze nel caricaturale è una pecca non da poco se si sceglie comunque la parvenza documento. Documento storico e politico, perché questo doveva essere e a conti fatti non è stato Il divo, opera a tratti decisamente fastidiosa nei modi e nell’impianto “ideologico” (passatemi il termine, perché è calzante), affatto offuscato da una regia che sovente distrae per sovraccarico di movimenti e di suoni. L’idea di restituire ogni volto deformato, ogni dimensione alterata, ogni percezione amplificata dall’uso del mezzo tecnico è, pur considerando notevole la capacità di Sorrentino di “creare” con la macchina da presa, un atto di presunzione evidente. Come è presuntuoso e, a dirla tutta anche pretestuoso, l’approccio a tesi cosi impietoso e – fatte salve le impressioni-quasi certezze che tutti abbiamo sull’ambiguità del personaggio – abbastanza scorretto. Perché qui si fanno illazioni pesanti, in alcuni momenti, si immaginano dialoghi di cui al tempo s’è favoleggiato parecchio su (quello tra Scalfari e Andreotti sul caso), si va oltre il giudizio politico negativo. Ma non stiamo qui a fare la contro morale, ci mancherebbe; Andreotti è, almeno politicamente, indifendibile. E poi il politicamente scorretto è sempre meglio del contrario. Però si percepisce una buona dose di paraculagine, perché sparare contro Andreotti è un po’ come sparare contro la Croce Rossa. Nonostante l’evidente ferocia del regista campano, i modi di rappresentazione e le tesi a supporto non convincono del tutto.

E fa un po’ rabbia pensare al talento di Sorrentino, al tema importante e ricco di spunti, e ritrovarsi in visione un’opera cosi incongruente, a tratti fastidiosa. Che senso ha caricare cosi tanto gli Sbardella e i Pomicino? Renderli fantocci buffi e grotteschi. Se fosse stato solo Andreotti rappresentato in questo modo avrebbe avuto anche senso. E invece Sorrentino ha voluto fare il teatro dei burattini, mettendo Pulcinella-Andreotti (più simile a quello di Oreste Lionello che a quello reale) al centro di un mondo di marionette. E in mezzo a ciò, i morti eccellenti: Sindona, Calvi, Pecorelli, Lima. Tutti, a vario titolo e differente dignità morale, riconducibili ad Andreotti. Si perde spesso il filo tra serio e faceto, soprattutto nella prima parte, nella quale il regista campano altera le dinamiche sin dall’incipit, solo dopo averci spiegato cosa il dizionario della lingua italiana recita a proposito di Brigate Rosse e Democrazia Cristiana. Ero già perplesso dopo 5 minuti, come avrete capito.

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E gli attori, come giudicarli? Questo sì che è un bell’enigma, a seconda che prevalga in noi la consapevolezza d’aver assistito a un cinema comico o drammatico. Scusate la semplificazione cosi netta, perché in realtà la chimica dell’opera è un tantino più complessa, però è difficile inquadrare e valutare la prova di Toni Servillo mascherato da Andreotti. Lo stesso dicasi per Buccirosso-Pomicino e compagnia. Mi servirà rivedere il film tre o quattro volte, se basteranno, per dirvi di più sulla questione. E poi la colonna sonora, altrettanto enigmatica, ad esser clementi d’aggettivi, è più che mai un frullato di suggestioni spesso antitetiche: davvero bizzarra, mescola rivisitazione dance della musica classica, Ricchi e Poveri, Renato Zero e altro che certamente mi sfugge. Colonna sonora eccessiva, ingombrante, immotivatamente onnipresente sulla scena. Buone, invece, le scenografie degli interni dei palazzi del potere.

La sensazione di fondo è che questa sia stata un’altra occasione persa per Sorrentino. Un’opera più interessante della precedente (L’amico di famiglia) solo ed esclusivamente per il tema trattato, che è stata clamorosamente premiata a Cannes – ho sempre pensato che i francesi sono un popolo incapace di dar giudizi sulla qualità dell’arte (e non solo sull’arte, a dirla tutta), cinematografica in particolare – e che in base a ciò circolerà in Europa più dei lungometraggi precedenti del regista. Se sia un bene o un male che il cinema che ci rappresenti altrove sia questo, avrete capito, lo ho ben chiaro. Che Sorrentino si compiaccia immotivatamente del suo modo di far cinema, mi è chiaro altrettanto. Ad ogni modo, considerato il tema, è una pellicola che – soprattutto chi ignora la storia contemporanea del Bel Paese – si può anche andare a vedere, non fosse altro perché i film di denuncia sulla politica sono rari. E Andreotti, che ha avuto il “privilegio” di vedersi rappresentato quando ancora è vivente, cosa ne pensa? Si dice non l’abbia presa affatto bene, durante la visione privata, ma che poi ci abbia, come di consueto, scherzato un po’ su. Del resto, se non è stata la politica, gli italiani con il voto, le accuse di mafia, i magistrati e quant’altro, a scalfire la sua maschera di gomma non sarà certo questo film.

Federico Magi, giugno 2008.

Edizione esaminata e brevi note

Regia: Paolo Sorrentino. Soggetto e sceneggiatura: Paolo Sorrentino. Direttore della fotografia: Luca Bigazzi. Scenografia: Lino Fiorito. Costumi: Daniela Ciancio. Montaggio: Cristiano Travaglioli. Interpreti principali: Toni Servillo, Anna Bonaiuto, Piera Degli Esposti, Carlo Buccirosso, Giorgio Colangeli, Massimo Popolizio, Paolo Graziosi, Giulio Bosetti, Alberto Cracco, Lorenzo Gioielli, Gianfelice Imparato, Aldo Ralli, Govanni Vettorazzo, Fanny Ardant, Michele Placido. Musica originale: Teho Teardo. Produzione: Indigo Film, Lucky Red, Parco Film. Origine: Italia, 2007. Durata: 110 minuti.