Allen Woody

Basta che funzioni

Pubblicato il: 22 Settembre 2009

Dopo il più che dignitoso viaggio in Europa, lungo quattro anni e quattro film – da Match Point a Vicky Cristina Barcelona -, Woody Allen torna in America, e neanche a dirlo nella sua adorata Manhattan, terra dell’ispirazione primordiale, luogo che ha consentito al regista newyorchese di partorire i suoi film migliori. E mi riferisco a opere come Io e Annie, Manhattan, Crimini e Misfatti, Hannah e le sue sorelle, più tutta una serie di pellicole  di indubbia qualità. Allen torna a Manhattan, dunque, e a dirla tutta con mia viva sorpresa. Credevo volesse trovare nuove fonti d’ ispirazione, pur riproponendo più o meno gli stessi temi, che a ben guardare sono identici da sempre – salvo la parentesi europea, decisamente meno ironica e più disillusa. Chi dice che il grande Woody rispolveri e rimetta a lucido da anni lo stesso film, soprattutto quando è la Grande Mela a ispirarlo, non ha tutti i torti. In effetti Basta che funzioni ripropone con la solita verve acido-umoristica, fatta di battute taglienti, intelligenti e divertenti i temi-ossessione del regista, come il contesto borghese ebraico-newyorchese, colto e disincantato, all’interno del quale spicca la figura di un intellettuale cinico, fatalista, logorroico, ansioso e ipocondriaco: Allen, insomma, che qui si sceglie un alter ego credibilissimo e impostato su misura, un bravo attore comico televisivo americano da noi poco o per nulla noto, rispondente al nome Larry David. Larry David non solo incarna il vecchio Woody, ma ne amplifica egocentrismo, cinismo e logorrea, monologando in sostanza per quasi tutto il primo tempo e rivolgendosi addirittura agli spettatori, palesando da subito il taglio metacinematografico dell’opera in questione. Certo non arriva ad entrare in sala come fece Jeff Daniels ne La rosa purpurea del Cairo, ma è certamente ingombrante e surreale al punto giusto, tanto che chi lo guarda da dentro la pellicola si stupisce, al contrario dello spettatore-interlocutore silente che ha subito chiaro il gioco alleniano. E Allen non fa nulla per nasconderlo, questo gioco, anzi lo rende assai evidente per tentare di mascherare il malinconico sottotesto del film.

Boris Yellnikoff è un ultracinquantenne ebreo americano, colto e misantropo – un quasi premio nobel per la fisica, ci dice lui -, che dopo un tentativo di suicidio non andato a buon fine decide di separasi dalla moglie e darsi a una rilassata solitudine fatta di disprezzo per l’umanità e nevrosi assortite. Aveva tentato il suicidio per noia, perché la sua vita agiata e borghese era troppo perfettina e senza slanci. Vive dando lezioni di scacchi ai ragazzini, trattandoli malissimo fino a insultarli per la loro incapacità d’apprendere le direttive di un genio come lui. Boris vive di incontri con 3-4 amici intellettuali, che riempie di battute al vetriolo sulla decadente civiltà occidentale, offende chiunque gli rivolge parola e non ha un quoziente intellettivo vicino al suo, tenendo sostanzialmente a distanza l’umanità che lo circonda. Ha una sua collaudata filosofia di vita, fortificata dal disincanto e dall’esperienza: “basta che funzioni”. Sì, basta che funzioni, perché l’amore è un inganno del tempo e i rapporti umani si basano sul reciproco soddisfacimento degli interessi contingenti. Tutto è contingente, nulla è eterno, dunque tutto cambia. E ci si adatta, sempre e comunque, magari anche nel migliore dei modi. A stravolgere la routine di Boris arriva però Melody, una giovanissima, bella e sostanzialmente decerebrata ragazza degli Stati del Sud, talmente lontana dall’ideale modello di scambio intellettuale abituale per l’ex fisico da non capire il suo sarcasmo, le sue battute taglienti e i suoi giochi di parole. È talmente ignorante da scambiare offese per complimenti, e tanto ingenua da innamorasi di lui, ovviamente non ricambiata. Eppure, poco a poco, la ragazza diventa indispensabile alla vita di Boris, assecondando i suoi tic quotidiani e le sue manie fino a che, in ossequio all’inossidabile motto “basta che funzioni”, anche l’anziano intellettuale si convince di quanto la ragazza gli è indispensabile. Lui diventa per lei una sorta di mentore, si sposano e dopo un po’ vedono sopraggiungere, quasi a rimorchio e per un buffo gioco del fato, sia la madre che il padre di Melody, che nel frattempo s’erano separati avendola data per dispersa o addirittura prigioniera di una setta di mormoni. Da bigottissimi e timorati di Dio, in poco tempo diventano l’una una famosa fotografa ispirata dai corpi e dall’erotismo, finalmente sessualmente soddisfatta da un imprevisto menage a trois, e l’altro un aperto signore di mezza età che ha scoperto l’amore e la sua vera natura, l’omosessualità. Ma il “basta che funzioni”, come logico, non dura in eterno, e la giovane Melody s’innamora d’un coetaneo, lasciando Boris ma restandogli affezionata amica. E l’amore vaga, fugge e ritorna fino a che ogni coppia (ri)trova la sua momentanea felicità: anche lo scorbutico Boris, in un nuovo incontro-scontro col destino.

Tutti i temi classici alleniani, come immagino risulterà evidente, sono presenti in quest’opera divertente, scanzonata, un po’ ridondante e sottilmente malinconica. Di più, tutto è sviluppato in eccesso, rispetto all’Allen dei Settanta-Ottanta, nel tentativo di rinverdire i fasti di un cinema comunque gradevole e mai banale ma oramai dal fiato un po’ corto. E mi costa dirlo, perché adoro Woody Allen da sempre, e perché pur probabilmente essendo molto lontano dalla sua visione del mondo, gli riconosco un genio narrativo – soprattutto nella costruzione dei dialoghi – fuori dal comune. Ho sempre apprezzato, peraltro, il suo rimandare efficacemente al grande cinema europeo (in particolare Bergman, Fellini, Truffaut), che gli ha consentito di prendere in prestito atmosfere e visioni di grandissimi cineasti per rielaborale e riconvertirle alla sua peculiare visione del mondo e del cinema. Anche qui gli omaggi sono evidenti, in particolare alla Nouvelle Vague e a Bergman (il finale rimanda evidentemente alle atmosfere e agli intrecci di Sorrisi di una notte d’estate), ma è tutto più scontato e prevedibile, oserei dire più frettoloso e meno curato. Se i dialoghi, come accennavo, restano sempre di alta qualità, la struttura narrativa al contrario si fa meno elaborata e fluida, soprattutto analizzando un finale veramente andato via di fretta, quasi a voler concludere il prima possibile l’incombenza. Il punto è questo, se Allen come in molti credono – ma è stata anche la sua forza, non un difetto – è un abile incantatore che ripropone sempre lo stesso gioco con qualche variabile, tanto più deve esser bravo nell’attenzione ai dettagli e alla struttura. E in Basta che funzioni, pur non perdendo in incisività di battuta, è proprio la struttura che sembra cedere, anche perché gli stessi dettagli non sono più curati come un tempo.

Sia chiaro, il film scorre, è a tratti godibile e con punte di sano divertimento, tanto da valere il prezzo del biglietto per gli amanti del cinema alleniano. Oltre la soglia degli amanti, Basta che funzioni può palesare – accentuati per difetto – i pregi/difetti alleniani, come l’eccessiva verbosità e un cinismo troppo compiaciuto e autoreferenziale. Gli attori, comunque, sono indovinati: Larry David è un credibilissimo alter ego del regista, l’’incantevole e brava Evan Rachel Wood, invece, ricorda da vicino l’altrettanto divertente personaggio interpretato da Mira Sorvino ne La dea dell’amore. C’è un’ultima considerazione che mi preme fare, che in qualche modo attenua il giudizio di ripetitività artistica precedentemente formulato: il gioco ludico di cinismo e sarcasmo, più che mai esibito proprio in questa pellicola, nasconde tra le pieghe – nemmeno poi tanto, a ben guardare – una riflessione malinconica sulle dinamiche affettive, sulle interferenze del fato e sul volubile approccio degli uomini al mistero che si cela nell’amore. Tutti temi che Allen restituisce con il disincanto di chi osserva il mondo da fuori, col suo occhio colto e intellettuale, in apparenza distinto e distante ma forse più vicino di quel che il filtro della commedia vuol lasciarci intendere.

Federico Magi, settembre 2009.

Edizione esaminata e brevi note

Regia: Woody Allen. Soggetto e sceneggiatura: Woody Allen. Direttore della fotografia: Harris Savides. Montaggio: Alisa Lepselter. Scenografia: Santo Loquasto. Costumi: Suzy Benzinger. Interpreti principali: Larry David, Evan Rachel Wood, Patricia Clarkson, Ed Begley Jr., Conleth Hill, Michael McKean, Henry Cavill, John Gallagher Jr., Jessica Hecht, Carolyn McCormick, Christopher Evan Welch, Kristen Johnston, Lyle Kanouse. Musica originale: Philip Glass. Produzione: Gravier Productions, Perdido Productions, Wild Bunch. Titolo originale: “Whatever Works”. Origine: Usa, 2009. Durata: 92 minuti.