Dopo la pessima prova fornita con Cuore sacro, forse il suo picco negativo, il regista italo-turco Ferzan Ozpetek torna sulle tracce de Le fate ignoranti per raccontarci una storia corale i cui motivi narrativi sono sempre centrati sulle diverse facce dell’amore omosessuale. Diverse facce che, nel suo universo di celluloide, paradossalmente, si somigliano fin troppo, non scalfendo mai il livello di superficie restituito agli spettatori ed evidenziando la carenza di un elemento fondamentale per un cinema che ambisca a scuotere i sentimenti e le coscienze: il piano emotivo-emozionale. Non pungono, non emozionano, non scuotono; è pertanto davvero incredibile come siano riusciti a trovar popolarità i suoi film, dal mio punto di vista davvero deprimenti. Prima di entrare nei motivi dell’opera, dunque, ripercorriamone brevemente gli snodi essenziali.
Un affiatato gruppo di amici – un nucleo eterogeneo composto da una coppia omosessuale, due coppie etero, una giovane tossicodipendente e un frocio: perché gay è troppo moderno, essendo lui un tipo all’antica – trascorre spesso ore liete in compagnia, tra cene e festeggiamenti vari, ai quali si aggiunge un bisessuale in cerca d’attenzione letteraria. Davide, affermato romanziere non ancora negli “anta”, convive col più giovane Lorenzo, ed è una sorta di guida per la compagnia; Antonia e Angelica sono una coppia in crisi non palesata, attenta all’equilibrio ma prossima alla rottura; Roberta una tossicodipendente che si disprezza, comunque assai carente quanto a volontà per cambiare una vita alla quale, in fondo, sopravvive senza troppo dannarsi l’anima. E poi, più in bassorilievo, ci sono gli altri. Nonostante tutte le contraddizioni possibili e le piccole meschinità, la routine di gruppo li rende sostanzialmente felici e spensierati. Ma la tragedia incombe: durante una cena Lorenzo è colto da aneurisma, cadendo subito in uno stato vegetativo che non lascia speranza alcuna. Il dramma incide come una lama sulle vite di tutti, annienta Davide e rimescola le carte. Qualcosa cambia nella vita di ognuno, rancori e dubbi esistenziali sopiti vengono alla luce, il tormento attende solo una possibile quiete: la morte del corpo di Lorenzo. Ciò avvenuto, non rimane che star vicini a Davide, quasi cancellato dal dolore, intenzionato ad estraniarsi dagli amici e dalla vita a venire.
Letta la trama, questa pellicola potrebbe apparirvi come un melodramma bello e buono, di quelli pronti a strappar lacrime ed emozioni, anche esagerando. E invece no! Saturno contro è un film freddo e compiaciuto, che quando è in cerca d’emozioni scade nel patetico. Patetico a cui Ozpetek era andato incontro anche con Le fate ignoranti (nei limiti), La finestra di fronte (abbondando) e Cuore sacro (strabordando); patetico che, vista la filmografia, risulta essere la cifra autoriale – se cosi la vogliamo definire – preferita del regista italo-turco, o quanto meno l’espediente narrativo di cui non riesce ancora a liberarsi. Con Saturno contro non siamo ai livelli dell’inguardabile e sconclusionato Cuore Sacro, ma il film è comunque decisamente anonimo e insignificante. Anonimo e isignificante perché oramai il suo occhio indagatore pesca sempre in contesti borghesi; quelli che, del resto, lo connotano e lo rappresentano. Ma occhio indagatore, se riferito a Ozpeteck e a questo film in particolare, è un’immagine quanto meno impropria, allorché non c’è un personaggio, dico uno, che ci sia presentato con un minimo di storia personale, di approfondimento psicologico. Dobbiamo inevitabilmente favoleggiarci su, perché non sappiamo e né sapremo mai nulla dei perché e dei percome, della vita di Davide e di Lorenzo, della crisi coniugale di Antonio e Angelica, del personaggio di Sergio, cosi fuori posto come pochi se ne vedono in film corali. Ozpetek è un enigma, un mistero continuo, tristemente involontario e privo di fascino. E poi il suo approccio al tema dell’omosessualità, oramai trattato brillantemente da tante degnissime pellicole, è palesemente ideologico, superficiale, sconclusionato, contestualizzato esclusivamente in ambienti bene o presunti tali. È un cinema fasullo, minato sin nel midollo da un ego che presume di possedere qualità artistiche sopra la media, incontrando invece distese grigie di pura mediocrità narrativa. La regia, al contrario, è sempre ben curata, non priva di una certa eleganza formale. Ma anche qui siamo alle solite: i movimenti lenti della macchina da presa, sempre accompagnati da una colonna sonora esageratamente riempitiva, non sono altro che un artificio formale, un trucco per mascherare l’inconsistenza della sostanza narrativa.
La pellicola dunque si sfarina in fretta, e pur non annoiando eccessivamente – perché il dramma è dramma e lo si vuol seguire -, mostra i suoi limiti già dopo il primo quarto d’ora; tempo sufficiente, per i più smaliziati, a comprendere l’andamento monocorde a cui si andrà incontro. È un’opera centrata su un dolore mai veramente esibito (se si eccettua il pianto di Pierfrancesco Favino, a un passo dall’epilogo), perfino in imbarazzo nel mostrare la malattia (lo stato vegetativo di Lorenzo, celato agli occhi dello spettatore). Ma forse non è imbarazzo, forse c’è proprio l’incapacità di Ozpetek di filmare l’emozione, avendo sempre scelto di privilegiare un cinema concettuale assolutamente privo d’empatia. È in conseguenza di ciò che l’elemento patetico fagocita l’intera pellicola, come vi accennavo, perché i drammi palesemente artefatti e studiati a tavolino producono sempre e solo situazioni involontariamente paradossali, poco verosimili, ideologiche, innaturali.
Eppure qui ci sono anche attori di mestiere, peraltro assolutamente non valorizzati. I riconoscimenti ottenuti dalla Angioini sono assoltamente immotivati, e Luca Argentero è un campione d’inespressività. Ennio Fantastichini, attore consumato, è fuori parte, fuori contesto e fuori schema; Stefano Accorsi, tanto innaturale quanto ebete in volto, è davvero il più sopravvalutato dei sopravvalutati; Serra Yilmaz, la trippona nana musa-feticcio del regista, più adatta a lavorare il pesce sui banchi del mercato che a stare davanti a una macchina da presa. Si salvano la Buy e Favino, a ben guardare i migliori anche fuori dal contesto proposto, comunque imprigionati in personaggi poco inclini alla loro misura recitativa. Il bravo Filippo Timi è per nulla valorizzato, mentre la Ferrari, Diberti, Tommaso e la Savino aleggiano innocui, senza far danni né generaldo il pur minimo sussulto. Chi si eleva veramente in tanta mediocrità è Milena Vukotic, per tutti rimasta nell’immaginario come Pina, moglie del ragionier Fantozzi, la cui recitazione glaciale e compassata è perfettamente in linea con l’assenza d’emozioni cui andremo incontro durante la visione.
Resta l’amletico dubbio. Come mai i film di Ozpetek, considerando i ritorni economici del cinema nostrano, hanno un discreto successo al botteghino? L’unica risposta che posso darvi è che Otzpetek è oramai entrato nel giro che conta ed è politicamente più che corretto. Visti i premi vinti dal film (davvero un mistero quello dato alla sceneggiatura) ho oramai una certezza: Ozpetek ha i suoi bravi santi in paradiso ed è, insieme ad Accorsi – degno compare qui come ne Le fate ignoranti –, il più sopravvalutato protagonista del pur grigio cinema italico attuale. Pertanto, un consiglio: lasciate perdere, passate oltre.
Federico Magi, settembre 2007.
Edizione esaminata e brevi note
Regia: Ferzan Ozpetek. Soggetto e sceneggiatura: Ferzan Ozpetek, Gianni Romoli. Direttore della fotografia: Gianfilippo Corticelli. Montaggio: Patrizio Marone. Scenografia: Massimliano Nocente. Costumi: Alessandro Lai. Interpreti principali: Stefano Accorsi, Margherita Buy, Pierfrancesco Favino, Luca Argentero, Ambra Angioini, Ennio Fantastichini, Serra Yilmaz, Filippo Timi, Isabella Ferrari, Michelangelo Tommaso, Milena Vukotic, Luigi Diberti, Lunetta Savino. Musica originale: Neffa. Produzione: Tilde Corsi e Gianni Romoli per R&C. Origine: Italia, 2006. Durata: 110 minuti.
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