Lars von Trier è un imbroglione, un grande paraculo, un abile incantatore di serpenti. Questo bisogna sempre premetterlo prima di lanciarsi nell’analisi di uno suo film, anche quando, novità delle novità, si dà alla commedia. Sì perché il regista danese, a due terzi della programmata e feroce trilogia americana (Dogville, Manderlay e l’annuciato ideale epilogo, che dovrebbe intitolarsi Washington), stacca dal dramma per provare nuove forme di sperimentazione tecnico-visiva, proprio attraverso la commedia. E trattandosi di von Trier, oramai ex dogmatico, non stiamo parlando di una commediola per strappar quattro risate ma di un ritorno al grottesco (Idioti) in chiave apparentemente più leggera, per lo meno nella struttura narrativa. Non viene mai meno comunque l’assoluto narcisismo-egocentrismo che lo anima, allorché si diletta a immaginare una struttura da commedia classica internezzandola con improvvise incursioni della propria voce fuori campo. Anche la voce off, nell’ottica del regista danese, ha un suo importante valore strutturaleche connota una vera e propria farsa che si consuma all’interno di un’azienda informatica. Vediamo brevemente la trama.
Danimarca, giorni d’oggi. Ravn (Peter Gantzler), effettivo proprietario di un’azienda informatica, ha sempre fatto credere ai suoi dipendenti di essere un semplice esecutore di voleri superiori, a lui delegati da un fantomatico grande capo. Nel momento in cui decide di vendere l’azienda ad un gruppo islandese, ha bisogno di una figura che interpreti il capo nel giorno della sigla dell’accordo: chi meglio di un attore? Ecco che assolda Kristoffer (Jens Albinus), teatrante da tempo disoccupato, fanatico del maestro Gambini. La recita dovrebbe durare pochi minuti, ma il capo islandese, rifacendosi ad un’ antica tradizione nordica, costringe Ravn a prolungare la farsa di Kristoffer per una ulteriore settimana. Assolutamente a disagio con l’informatica, con la quale non ha alcuna dimistichezza, Kristoffer comincia a conoscere il gruppo dei dipendenti i quali, all’oscuro di tutto, non sanno ancora di star per essere licenziati. L’attore scopre pian piano il gioco di Ravn, ovvero far ricadere le colpe della cessione su un fantomatico capo per poter vendere con la coscienza a posto. Ravn, difatti, si era sempre proposto come il buono della compagnia, il conciliatore, amato e benvoluto da tutti, mentre al contrario aveva sempre sfruttato i suoi ignari dipendenti. Kristoffer comincia ad avere una crisi di coscienza, tanto da far di tutto perché l’affare non vada in porto, riuscendo a ribaltare in suo favore la situazione, costringendo Ravn ad un esame di coscienza che lo porta, proprio in via di risoluzione del contratto, al ripensamento e al pentimento. Ma arrivati a questo punto la farsa si consuma in un modo assolutamente imprevisto. L’epilogo della vicenda sarà buffo e sarcastico e, in linea con il von Trier pensiero, cinico e corrosivo.
Dico la verità, dopo il pessimo Manderlay qualche pregiudizio sull’opera di von Trier mi era effettivamente sorto, tanto da evitare il film in questione all’uscita in sala ma recuperandolo poi in versione domestica. Posso dirvi che ho fatto male, perché è vero tutto: paraculo, ingannatore ed egocentrico quanto volete, ma è certamente uno dei pochi sperimentatori del cinema d’oggi. Qui, addirittura, abbandonato il noto Dogma95 – quasi un testo sacro del cinema che più dogmatico non si potrebbe -, utilizza l’automavision, una neonata modalità di ripresa davvero straniante nell’effetto visivo di ritorno. È una tecnica alquanto bizzarra, che fa uso di una camera fissa senza alcun operatore alle spalle, controllata da un computer che seleziona riprese pressoché casuali. Vi sembrerà all’improvviso di rivedere il cavaliere senza testa di Sleepy Hollow, e invece sarà solo un effetto deformato della macchina da presa la quale, non si sa a che titolo, ha tagliato un pezzo di immagine (con le teste capita in qualche occasione: ma l’effetto è veloce, non è fastidioso). Vi sembrerà di assistere a soluzioni folli di montaggio, in alcuni frangenti, ma è sempre l’effetto automavision che sceglie le inquadrature del tutto a caso . E potreste pensare: ma che boiata! Non saprei dirvi se, scegliendo un diverso tipo di genere rappresentato (drammatico e angosciante, come ad esempio furono Dancer in the dark o Le onde del destino) questa forma straniante di ripresa avrebbe avuto la stessa bizzarra efficacia, ma posso assicurarvi che, nella fattispecie, tutto scorre bene e anche di più. Come sarebbe stato il film senza l’automavision? Probabilmente sarebbe venuto bene comunque, visto che i paradossi e la chiave grottesca sono finalmente al servizio delle risate, pur non trascurando la critica sociale, sempre molto cara al regista. C’è infatti il solito moralismo di von Trier, forse il più moralista dei registi europei (ancora una volta Idioti è il riferimento principe, ma anche Dogville e Manderlay, a ben guardare), ne Il grande capo, ma è un moralismo sostenibile, proprio perché espresso in forma di commedia.
L’opera è anche, evidentemente, una riflessione sul ruolo dell’attore, sul retroscena e sulla ribalta: sul teatro. Emblematici, a questo proposito, l’incipit e l’epilogo, in cui Kristoffer è vinto dal ruolo, o meglio, vuol far emergere la sua interpretazione a dispetto di una realtà che, nell’apertura come nella chiusura, avrebbe richiesto una diversa misura dell’interprete, il quale perde il contatto col qui ed ora per trasfigurarsi in maschera eterna, senza possibilità di ritorno alla contingenza che lo accoglie. Ma se nell’incipit il suo modo di fare è sostanzialmente innocuo, nell’epilogo si trasforma in una farsa che non cerca, non vuole e di conseguenza non trova il lieto fine. E von Trier, cinico ed eccessivo anche in forma di commedia, quanto mai faccia tosta, ce lo ricorda proprio nelle parole di congedo, nel suo ultimo intervento a margine della storia narrata. Ci dice, in sostanza, che se ci aspettavamo un diverso finale, a lui frega poco o niente, che è beato chi si è goduto il film perché nulla di più di ciò che ha visto si sarebbe dovuto aspettare.
Ve lo ripeto, von Trier è un grande furbacchione, perché ha capito che oggi, nella società dell’immagine, bisogna sempre saper stupire. Magari facendo la morale, per lasciar intendere che si hanno a cuore le sorti dell’umanità, ma sempre dall’alto del privilegio di maneggiare l’arte, inventando. Non importa come o cosa, conta solo farlo. E posso dire che il von Trier fuori dal dogma e prestato alla commedia è un regista che torna a convincere. Certo, sarebbe bello ritrovarlo immerso in atmosfere cupe e surreali come quelle di The Kingdom, ma vista la piega che sta prendendo la trilogia americana c’è da augurarsi una lunga stagione di commedie, se sono ben fatte come questa. Opera che consiglio anche ai non amanti del regista danese, tra i quali da qualche tempo mi ero annidato anch’io.
Federico Magi, giugno 2007.
Edizione esaminata e brevi note
Regia: Lars von Trier. Soggetto e sceneggiatura: Lars von Trier. Direttore della fotografia: Claus Rosenlov Jensen. Scenografia: Simone Grau. Montaggio: Molly Marlene Stensgard. Interpreti principali: Jens Albinus, Peter Gantzler, Iben Hjejle, Mia Lyhne, Luoise Mieritz, Henrick Prip, Casper Christensen, Sofie Grabol, Anders Hove, Fridrick Thor Fridriksson, Jean-Marc Barr, Benedikt Erlingsson. Produzione: Lars Von Trier per Zentropa Productions, Memfis Film, Slot Machine, Zik Zak Kvikmyndir. Titolo originale: “Direktoren for det hele”. Origine: Danimarca / Svezia, 2006. Durata: 99 minuti.
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