Censurato in 23 paesi del mondo, oggetto di culto dei cinefili più incalliti, quelli che non stanno tanto li a storcere il naso per qualche efferatezza di troppo, Cannibal Holocaust, film più noto e celebrato di Ruggero Deodato (per ciò stesso divenuto autore cult), è tornato da qualche mese in dvd, in una versione totalmente restaurata e non eccessivamente tagliata. I motivi d’interesse che, nel tempo, hanno accompagnato questa pellicola non sembrano così evidenti; o meglio, non sono legati necessariamente alla parvenza di splatter horror più truculento della norma. È vero che le atrocità abbondano, e che vi è anche un deprecabile abuso – per usare un eufemismo – perpetrato ai danni della fauna locale (torneremo poi su questo argomento), ma ciò che dobbiamo subito sgombrare dal campo è l’idea che quella in questione sia una pellicola horror. E lo si può affermare con ragionevole certezza se si è appassionati del genere. Il film di Deodato apre con una panoramica sulla foresta Amazzonica – dalla parvenza vergine e incantata, ancora non falcidiata dall’eccessivo disboscamento -, con la macchina da presa che, dall’alto, segue la scia del Rio accompagnata dalla malinconica colonna sonora di Ortolani, fino a portarci ai grattacieli di New York. Subito un contrasto visivo, tra la natura selvaggia e i templi della modernità, tra la quiete e il caos. Una troupe di documentaristi, composta da Jack, Alan, Shanda e Mark, è partita per l’Amazzonia, desiderosa di scoprire l’universo selvaggio e inesplorato delle popolazioni locali e i loro riti ancestrali. Sono passati mesi dalla loro escursione scientifico-antropologica, ma di loro si è persa ogni traccia. Eppure i quattro avevano fatto reportage in zone pericolose, dove la guerra, la fame, la malattia, i sanguinosi riti tribali e la morte sono all’ordine del giorno. In cerca della troupe viene inviato un noto antropologo: la BBC ha investito parecchi denari nella spedizione e vuole recuperare a tutti i costi il materiale filmato dai quattro operatori. La seconda spedizione, accompagnata da una guida esperta e da un selvaggio fatto prigioniero, ripercorrendo le tracce lasciate dai quattro, approda nel ventre della foresta amazzonica. Qui l’inquietudine dell’antropologo trova il suo apice, allorché venuto pacificamente a contatto con le feroci popolazioni del luogo, ritrova i corpi spolpati dei quattro operatori. In compenso trova i preziosi documenti filmati. Ma cosa è accaduto veramente? Il contatto con gli autoctoni, vista l’impossibilità di interazione verbale, non ha chiarito alcunché. Perché, dunque, quel rito così truce e sanguinario? Tornato nella Grande Mela, su pressione della BBC, il professor Munro si ritrova a visionare l’intero materiale recuperato e miracolosamente intatto: visto l’interesse dell’opinione pubblica, la potente rete televisiva vuol farne uno speciale per la prima serata. Ma ciò che si trova di fronte l’antropologo è una scia di violenza, d’orrore e di sangue senza precedenti. I quattro operatori sono stati tutto fuorché studiosi filantropi. La vendetta della popolazione locale, attaccata nel cuore del suo protetto cosmo, avrà conseguenze allucinanti.
Ciò che appare subito evidente, ad una prima analisi di superficie, è che il film di Deodato si muove su vari livelli di narrazione e su una padronanza del mezzo tecnico indiscutibile. Gli spunti arrivano – o arriverebbero – dagli allora noti (per lo meno in una certa cerchia) documentari di Jacopetti (Mondo cane, Africa Addio), costruiti ad arte per scioccare il pubblico attraverso la nuda e semplice rappresentazione delle crude realtà dei paesi al margine, dimenticati dall’Occidente (esecuzioni, torture, abominevoli riti iniziatici). Ma lo spunto non serve ad emulare, bensì a criticare ciò che Deodato considerò un artificio palese, ovvero documentare la morte e le sue più atroci declinazioni (fu noto a tutti poi che Jacopetti “dirigeva” addirittura le esecuzioni, a seconda della potenza o del raccapriccio che l’immagine da lui filmata avrebbe sortito sul pubblico). Tanto lo considerava artificio che decise di fare un film che fosse a sua volta un artificio palese, usando però mezzi e tecniche che potessero insinuare nello spettatore suggestioni realistiche. E qui troviamo l’inganno furbo, tanto furbo da farci soprassedere sulla questione, lasciandoci suggestionare il giusto senza sentirci necessariamente presi per i fondelli. E adesso vi chiederete, come è possibile che non sia sopra le righe un film del genere? Intendiamoci, dal punto di vista estetico il film è quello che è, ma dal punto di vista narrativo e tecnico l’opera di Deodato ha una sua fortissima coerenza interna, non ha cedimenti strutturali, non scade nel banale e trova nell’elogio dell’efferatezza una cifra autoriale altrove – sulle stesse tematiche – assolutamente non riscontrabile. Ecco perché non è sopra le righe, perché riesce a trovare un equilibro assai difficile, considerato il tema e i limitati mezzi a disposizione.
Certo c’è da fare una riflessione a parte per le atrocità (reali, col nostro Luca Barbareschi esecutore materiale principe!) subite dagli animali, davvero gratuite a mio modo di vedere, e deprecabili sotto tutti i punti di vista, senza riserva alcuna. Giusta quindi è la censura, per salvaguardare lo sguardo dei minori, non sempre capaci di ben discernere rispetto a immagini di tale immotivata crudeltà. Crudeltà al contrario motivatissima, invece, quella riservata alla troupe di operatori che avevano violato la verginità di una terra, nonché le consuetudini di un popolo comunque sovrano, che avevano vilipeso la dignità di una comunità la quale, vista la condizione di vita e i culti, non poteva non rispondere con ferocia. E qui l’autore, proprio nella sequenza conclusiva, lascia alle parole dell’antropologo, sconvolto della visione del nastro, la morale dell’intera pellicola. In una domanda dal sapore retorico: “Selvaggi? Mi sa che i veri selvaggi siamo noi”.
Polemiche, dibattiti, discussioni, a distanza di quasi trent’anni Cannibal Holocaust è ancora oggetto di accese controversie che, è logico pensarlo, non possono che far comodo a Ruggero Deodato la cui cinematografia, altrimenti, salvo rare digressioni letterarie degli amanti (leggere l’accurato saggio di Gordiano Lupi sull’autore), rischia di sprofondare nell’oblio dell’universo di celluloide. Perché, nonostante questo film sia rimasto nell’immaginario per la sua aurea maledetta, il resto delle sue opere è abbastanza trascurabile, nonostante l’indiscutibile capacità del nostro nell’utilizzo del mezzo tecnico. Proprio Cannibal Holocaust, come ripeto, ci dà la misura di quel che ho appena affermato, quando notiamo l’intelligente struttura della pellicola: metà narrazione classica e metà (falso) documentario, brillantemente poggiato su un montaggio realistico (tutt’altro che perfetto, al contrario di un suo scialbo e fortunato epigono di celluloide, The Blair Witch project, che utilizzata un montaggio talmente ben incasellato da risultare lontano dalla forma documento girato in tempo reale). L’uso genialedella camera a mano è la forza del film di Deodato, pertanto consigliato non solo ai curiosi o agli appassionati del genere ma anche a coloro che sono interessati a capire come con pochissimi mezzi, buone idee e un po’ di mestiere si possa costruire una pellicola interessante e non banale, nonostante tutte le critiche che le si possono fare e che indubbiamente merita.
Ultima nota doverosa, Cannibal Holocaust è anche ed evidentemente un apologo spietato contro il sensazionalismo dei media, contro la loro ossessiva invadenza, contro il loro costruire artifici per farne (falsi) documenti per le masse. A suo modo, pertanto, un film antisistema, che trova in quest’ultima tematica analizzata il suo valore aggiunto. Soprattutto oggi, a trent’anni di distanza, in un mondo in cui la comunicazione dei media è distorta, malata, a tratti ridicola e sempre pericolosa.
Federico Magi, maggio 2007.
Edizione esaminata e brevi note
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