Rachmanowa Alja

Wera Fedorowna

Pubblicato il: 19 Gennaio 2017

Del tutto sconosciuta oggi in Italia, ma ancora ben nota in Austria, Alja Rachmanowa (pseudonimo di Galina Djuragins) pubblica Wera Fedorowna a Graz nel 1939. Come tutti i suoi scritti, anche questo romanzo nasce in lingua russa e viene poi tradotto in tedesco dal marito della scrittrice, Arnulf von Hoyer, durante l’esilio austriaco, seguito alla presa di potere dei bolscevichi che costringe tutta la famiglia ad allontanarsi per sempre dal suolo russo. Ma la Russia inevitabilmente torna così nei sogni come nei pensieri e nei ricordi e la Rachmanowa condivide questo destino con molti scrittori della sua generazione. Peccato che in Italia dopo l’attenzione tributatale negli anni Trenta e Quaranta sia calato il silenzio. Nessuna casa editrice ha mai provveduto a rispolverare le pagine dei diari (l’ultimo non è mai stato tradotto) e dei romanzi. Anche scriverne è complicato: i libri pubblicati prima del 1950 non possono essere prestati, e così molte biblioteche conservano le opere della Rachmanowa consentendone solo la “consultazione interna”, il che di fatto ne esclude totalmente la diffusione. Si trovano ancora copie dei suoi libri sul mercato antiquario ma auspico la riedizione (anche un po’ ammodernata nel linguaggio) di questa Autrice che incarna perfettamente lo spirito di quella “seconda generazione” di scrittori russi costretti alla fuga o all’esilio dal bolscevismo.

Il romanzo narra le vicende ambientate tra San Pietroburgo e Mosca, tra il 1879 e il 1910, in una Russia dichiaratamente di ancien régime, di una fanciulla forte e volitiva, Wera Fedorowna, testimone della rovina della propria famiglia a causa di un padre artista, famoso ma scialacquatore e di una madre totalmente sacrificata ai figli e alle fortune più sociali che sostanziali del marito. Quando il famoso cantante dell’Opera Fedor Petrowitch Komissarzewski abbandona la famiglia per andare a vivere con una donna di cui si è innamorato, la quindicenne Wera comincia a comprendere molto della vita. La fanciulla dovrà tuttavia affrontare svariate traversie prima di trovare la propria strada: scampa un matrimonio di interesse con un orribile impiegato, ma cade nella rete di un conte squattrinato che ella vorrebbe redimere e che invece la rende estremamente infelice. Eppure proprio dalle ceneri della fanciulla buona, virtuosa e forse un po’ ingenua risorge una Wera decisa e determinata nell’intraprendere, come il padre, la carriera artistica. E diventa un’attrice molto amata, purtroppo solo in Patria e purtroppo solo in certi ruoli: la fatica di far emergere il proprio talento si scontra con l’incapacità talvolta degli impresari e talvolta dei registi (riuscirà a scontentare perfino Checov, nonostante una vera passione per la parte di Nina nel Gabbiano), fino a decidere di aprire un nuovo teatro in autonomia, dando ascolto a sirene di modernità che tuttavia non le portano fortuna: il “Teatro dell’idea” nelle mani di un impressionista che stravolge Ibsen, tra gli altri, è causa dell’allontanamento del pubblico e di feroci critiche. Neppure una tourneé statunitense riesce a dar respiro finanziario al progetto che, finalmente, viene abbandonato. Per Wera è tempo di una nuova rinascita: a fianco del fratello che prende le redini della regia, Wera ritrova l’antico splendore portando sulle scene Hamsun, Wilde… fino a una nuova consapevolezza: la vecchiaia sta inesorabilmente procedendo, non è più possibile interpretare parti di ragazzine ed è meglio lasciare le scene all’apice del successo. L’attrice aprirà una scuola di recitazione. Ma non subito, c’è una nuova tourneé, l’ultima, dall’Ucraina al Turkestan, dove un inatteso tragico appuntamento con il destino conclude la vicenda umana di Wera Fedorowna.

L’opera che viene pubblicata successivamente a svariate altre –  molto dopo il primo diario che rese famosa la Rachmanowa (Lattaia a Vienna, del 1933) – non è, per intenderci, un romanzo di formazione, ma lascia nel lettore un’impressione di incompiutezza. I personaggi appaiono dal nulla e nel nulla scompaiono, come il nuovo amore di Wera, un medico purtroppo già impegnato con cui la donna si incontra per brevi istanti lungo tutto l’arco della vita dopo il fallimento del suo matrimonio, di cui non ci viene mai svelato il nome. O come accade con la madre, le governanti e le sorelle, presenti nella prima parte dell’opera, quando la vita di Wera è ancora legata alla famiglia, ma delle quali poi non sapremo più il destino. Forse la Rachmanowa ha il preciso intento di concentrare tutta l’attenzione del lettore sulle vicende mano a mano che esse accadono: non ha senso voltarsi indietro, non lo ha potuto fare neppure lei, che in Russia ha lasciato per sempre genitori e parenti, affetti e ricordi. Così Wera, che pure vivendo nel tempo precedente alla rivoluzione potrebbe occuparsi dei suoi cari, recide quasi i legami con l’antica fanciulla, di cui mantiene intatta solo una certa propensione al virtuosismo eroico. Riflessiva, testarda ed estremamente onesta con se stessa e con gli altri, Wera incarna uno spirito femminile che fa tenerezza dalla distanza attuale del nostro punto di vista. Manca in effetti la sfaccettatura psicologica di cui godiamo ad esempio negli stessi diari dell’Autrice: la tensione narrativa, i paesaggi, lo svolgersi degli avvenimenti risuonano di echi naturalisti e impressionisti, la concatenazione dei fatti è sottintesa, superflua quasi. Ciò che conta è il momento e quello che ne scaturisce: Wera è sempre se stessa, solo il lettore percepisce l’evoluzione interiore, la maturità di pensiero, il solco profondo dell’anima che ogni accadimento triste o felice ha prodotto.

La madre Russia tanto sospirata qui è già cornice evanescente, è il mondo abbandonato alle soglie dell’età adulta, che mantiene perciò i tratti del mito, visto attraverso un vetro opaco. Le storie personali sono più interessanti delle cose o dell’ambiente, poiché, proprio come nei diari, il non soffermarsi troppo sugli aspetti “paesistici” mette al riparo dal dolore pungente della memoria.

Edizione esaminata e brevi note

Alja Rachmanowa (pseudonimo di Galina Nikolaevna Djuragina, 1898-1991) è stata una scrittrice russa. Sconosciuta in Patria, le sue opere furono pubblicate tutte nella traduzione tedesca fatta dal marito austriaco, un ex-prigioniero che l’Autrice sposò nel 1921 e con il quale visse a Perm’ dal 1922 al 1925, quando i due furono espulsi dall’Unione Sovietica. Si stabilirono a Vienna col figlioletto Jurka e poi a Salisburgo dove il marito di Alja aveva ottenuto una cattedra all’università. Qui l’Autrice iniziò la pubblicazione delle sue opere con lo pseudonimo Rachmanowa, soprattutto per proteggere i parenti rimasti in Russia. Lattaia a Ottakring (1933) ottenne un grande successo e la Fabbrica degli uomini nuovi (1935) ricevette il premio della Académie d’Education et d’Etudes Sociales come il miglior romanzo anti-bolscevico: i suoi libri vennero tuttavia vietati dopo l’annessione dell’Austria al Reich a causa del patto tra Hitler e Stalin. Nel 1945, durante l’ultima battaglia alle porte di Vienna, il figlio Jurka di appena 23 anni fu ucciso in combattimento: Alja e il marito fuggirono in Svizzera dove vissero l’ultima parte della loro vita. I libri della Rachmanova sono stati tradotti in moltissime lingue e hanno avuto tirature altissime: dobbiamo al marito della Rachmanowa la traduzione degli scritti, recuperati da una stesura “fonetica” in caratteri latini, poiché l’Autrice non possedeva una macchina da scrivere con  caratteri cirillici.

Alja Rachmanowa, Wera Fedorowna, Milano, Baldini & Castoldi, 1950, 2a edizione.
Tradotto dal testo originale tedesco da G. Ripamonti Perego.