Mari Michele

Rosso Floyd

Pubblicato il: 4 Agosto 2013

Il sottotitolo recita: Romanzo in 30 confessioni, 53 testimonianze, 27 lamentazioni di cui 11 oltremondane, 6 interrogazioni, 3 esortazioni, 15 referti, una rivelazione e una contemplazione. C’è una motivazione forte dietro la scelta di Mari di riscrivere la storia dei Pink Floyd smembrando la forma romanzo in un maxi-processo fatto di interrogazioni, testimonianze, confessioni e referti. Un dibattimento in cui sono chiamati a rispondere sia i Pink Floyd (tutti tranne Syd Barrett) sia gli altri personaggi reali o fantastici che ne hanno incrociato, o mancato, il destino di gloria: da Alan Parker ad Alan Parsons, dai familiari di Roger Waters e Syd allo gnomo che ispirò The piper at the gates of dawn, da Stanley Kubrick, che non riuscì a coinvolgere i PF nella colonna sonora di 2001, a Chris Dennis, il primo cantante della band, che la abbandonò per lavorare come tecnico della RAF nel Golfo Persico … Sappiamo che la drammaturgia del processo non è estranea all’estetica dei PF, come ci ricorda il film The wall, dove Bob Geldof, alias Roger Waters (a sua volta alter ego di Barrett) è un divo in crisi che erge un muro protettivo-oppressivo intorno a sé, finché un giudice terribile non lo condannerà a patire la pena più profonda: abbattere il suo muro ed esporsi agli altri. Ma non è solo questa sollecitazione estetica ciò che spinge Mari a organizzare il romanzo dei PF come un’istruttoria. Se c’è un processo, vuol dire che c’è una colpa. E nel caso della band di Cambridge è un senso di colpa quello che va processato, molto affine a quello che la psicologia chiama la “sindrome del sopravvissuto”.

È il 1968 quando Syd Barrett, amico fraterno di Roger Waters e cofondatore assieme a lui dei PF, abbandona la band (ma in realtà ne viene abbandonato) per disturbi mentali e problemi legati all’abuso di lsd, e viene sostituito alla voce e alla chitarra da David Gilmour, altro suo vecchio amico. Da quel momento la band (“la mia band”, come continua a chiamarla Barrett) non cessa di rivolgersi, nei testi delle canzoni, all’amico perduto, genio interrotto, diamante pazzo bruciato dalla sua stessa luce: da Wish you were here a The Wall, da Atom heart mother a The division bell, i testi di Waters e Gilmour sono pieni di rimandi a Syd (Poles apart, scrive Mari, «è un concentrato di senso di colpa fra i più lancinanti che siano stati composti … Bisogna avere un cuore di pietra per non sentirsi male quando Dave dice a Syd ‘Lo sapevi’, lo sapevi che per te sarebbe andato tutto storto e per me tutto a meraviglia»). Syd, Roger, David: tre personalità unite in un groviglio inestricabile, di quelli che si possono sciogliere solo con un taglio netto. Si parassitano l’un l’altro fino a sconfinare l’uno nell’altro: David, splendido chitarrista, che dapprima aiuta Syd a perfezionare la sua tecnica non eccelsa e che poi, entrando nei PF come suo sostituto, si trova costretto a imitarne lo stile, forgiato dai suoi stessi insegnamenti (Gilmour «si impadronisce di quello stile in modo prodigioso, ma dopo la definitiva rinuncia del gruppo a Syd deve recuperare il proprio modo di suonare, nel quale passerà però anche qualcosa di Syd»). Syd, grassa larva sopravvissuta alla propria morte, che dallo scantinato di Cambridge in cui si è rintanato a vivere striscia dentro ai testi di Roger e li governa da lontano; e Roger, che continua ad aleggiare sui PF anche dopo la rottura con Gilmour nel 1985, perché negli anni Gilmour ha fatto crescere «un piccolo Roger dentro di sé», interiorizzandone «le antiche, spigolose, drammatiche istanze».

«Ho spesso pensato a noi come a dei sopravvissuti» confessa Roger a proposito dei Pink Floyd scampati all’inabissamento di Barrett: «Siamo un albero cresciuto da quel virgulto, per questo l’abbiamo tenuto in vita, per questo l’abbiamo tradito come ogni adulto tradisce il bambino che fu». Un tradimento anche musicale, non solo umano: abbandonare Barrett ha significato per i PF sostituire l’anarchia psichedelica con lo sperimentalismo elegante, la giocosità con il perfezionismo, gnomi e fate e bande di paese con il geometrismo di prismi, cerchi e triangoli (“la musica delle forme primarie”, come la definì un giornalista).

Sopravvivere al diamante pazzo, morto di autocombustione, tradire e tradurre il suo verbo puerile e allucinato in un rock di raffinata complessità, espiare la colpa della sopravvivenza col tributo del ricordo ossessivo, è la chiave con cui Mari rilegge la vicenda dei PF rivestendo di morbosa tragicità uno dei miti più luminosi della storia del rock.

Curioso che proprio il più antimoderno dei nostri scrittori contemporanei abbia dato vita all’unico romanzo italiano dedicato a una rock band. Ma pur esulando in un territorio così anomalo per il suo immaginario, Mari riesce a rimanere profondamente fedele a se stesso. Sono molti i tratti dell’estetica pinkfloydiana che potevano irresistibilmente attrarre questo profugo leopardiano delle nostre lettere: l’incantazione lunatica che possedeva Barrett e la band di Dark side of the moon; il rock aristocratico e «monastico» dei PF, che non sfasciavano chitarre e lasciavano sempre intatte le camere d’albergo; la loro attrazione per le pulsioni tanatologiche dell’inconscio (così agli antipodi rispetto a quelle erotiche che permeano la musica dei Led Zeppelin, complementari ai PF come la mente al corpo), che ben si sposano con la vena ossianica di Mari. C’è poi il côté fantasy di Barrett che non poteva non suggestionare uno dei pochi autori italiani in grado di cimentarsi col fantastico ad un livello non puramente di genere: una predisposizione che Mari ha rivelato sia in La stiva e l’abisso (nella cui zoologia fantastica sembrano riecheggiare Il Mar delle blatte di Landolfi e la Lighea di Tomasi di Lampedusa) che nel licantropico Io venìa pien d’angoscia a rimirarti.

Caleidoscopio di linguaggi e punti di vista, oratorio pop-rock dove l’accurata ricostruzione filologica si mescola al guizzo visionario, Rosso Floyd è un romanzo sinfonico che ha l’andamento di un concept album e un’anima classica, in perfetto stile progressive. Tra i molti pregi, ha quello di ricordarci che una scrittura di solidità classica, come quella di Mari, ha risorse mimetiche impensate e che nessun tema le è precluso, nemmeno il rock con le sue maledizioni.

Edizione esaminata e brevi note

Michele Mari (Milano 1955). Romanziere, poeta. Insegna letteratura italiana all’Università statale di Milano. Tra i suoi libri di narrativa, “La stiva e l’abisso”, Bompiani 1992; “Rondini sul filo”, Arnoldo Mondadori editore, 1999; “Verderame”, Einaudi, 2007; “Rosso Floyd”, Einaudi, 2010 (ripubblicato da Einaudi nel 2012).

Michele Mari, “Rosso Floyd”, Einaudi, Torino, 2012.

Prima edizione: “Rosso Floyd”, Einaudi, Torino, 2010.

Bibliografia consigliata: Alice Di Stefano, “Le ossessioni di Michele Mari”, Sincronie, 2004, n. 16, 185-191; Alessandro Iovinelli, “Le strategie ipertestuali di Michele Mari”, Narrativa, 2001, n. 20-21, 297-304; Riccardo Donati, “Collezioni di ceneri. qualche appunto su Michele Mari”, in “I veleni delle coscienze. Letture novecentesche del secolo dei Lumi”, Bulzoni, Roma, 2010, 213-230; Carlo Mazza Galanti, “Michele Mari”, Cadmo – Scritture in corso, Fiesole, 2011.

Approfondimento in rete: MARI in Lanke + …

http://www.booksblog.it/post/6375/rosso-floyd-di-michele-mari-un-viaggio-fantastico-nella-storia-dei-pink-floyd

http://www.affaritaliani.it/culturaspettacoli/michele_mari_rosso_floyd090510.html

http://archiviostorico.corriere.it/2010/maggio/30/Pink_Floyd_istruttoria_sul_mito_co_9_100530042.shtml

Elettra Santori, agosto 2013