Schmitt Eric-Emmanuel

Concerto in memoria di un angelo

Pubblicato il: 4 Gennaio 2011

Una vecchia assassina, scampata fortunosamente alla giustizia, si innamora di un bellissimo prete e lo tiene avvinto a sé con la confessione quotidiana dei propri omicidi. Un marinaio lontano da casa riceve la notizia della morte di una delle sue figlie: quale sarà delle quattro? Il messaggio via telegrafo non lo dice. In attesa di scoprirlo, il marinaio si tormenterà con un cinico pensiero: di quale figlia sentirebbe meno la mancanza? Due amici violinisti, uno geniale e angelico, l’altro meno dotato e arrivista, in seguito ad un drammatico incidente andranno incontro ad un completo ribaltamento di ruoli, in cui la purezza dell’uno si sfigurerà in rancore, e l’arrivismo dell’altro si trasfigurerà in carità. E infine una coppia, la più importante di Francia: il Presidente e sua moglie. Lei lo ama, poi lo detesta, poi lo ama e lo detesta allo stesso tempo. Lui la ignora, la tradisce, poi la teme e infine, dopo averla persa, se ne innamora di nuovo. Una «storia d’amore desincronizzata», in cui i protagonisti non vivono mai gli stessi sentimenti in contemporanea.

Questi sono i quattro racconti che compongono “Concerto in memoria di un angelo”, l’ultimo libro di Eric-Emmanuel Schmitt. Ciascuno di essi narra un percorso di conversione, solo apparente nel caso de “L’avvelenatrice”, la vecchia che finge di pentirsi dei suoi omicidi per conquistare il prete, autentica negli altri tre racconti: il marinaio rude e distante, immaginando la morte delle sue quattro figlie, si trasformerà in un padre affettuoso (“Il ritorno”); il violinista spregiudicato, roso dai sensi di colpa per l’incidente occorso all’amico, rinuncerà alla carriera e diventerà un fisioterapista (“Concerto in memoria di un angelo”, il racconto che dà il titolo al libro); il Presidente francese si redimerà dal suo cinismo attraverso l’amore tardivo per sua moglie (“Un amore all’Eliseo”).

Soggetti avvincenti, quelli di queste quattro storie, purtroppo depotenziati da una scrittura casta, che non affonda mai nella scabrosità del desiderio, della malattia, della vendetta, pur raccontandoli. Schmitt utilizza efficacemente l’arma del cinismo per sdoppiare i suoi personaggi tra il loro essere e il loro apparire, ma rimane vittima della sua scrittura elegante, o forse semplicemente garbata. Pur evitando quasi sempre di cadere nella trappola dell’happy end, semplifica eccessivamente il percorso di vita dei suoi personaggi, va a sintesi troppo presto (le conversioni, ad esempio, sono tanto improvvise, o talmente perfette, da sembrare guarigioni miracolose), forse trascinato dalla forma-racconto, che in se stessa presenta il rischio di passaggi narrativi precoci.

Eppure è proprio alla forma-racconto che Schmitt dedica le pagine più belle di questo volume: si tratta di brani tratti dal suo diario personale, riflessioni che hanno accompagnato la stesura di “Concerto in memoria di un angelo” e che l’autore ha deciso di inserire in un’appendice al testo (intitolata “Giornale di bordo”).

«Il racconto è un diagramma di romanzo, un romanzo ridotto all’essenziale. È un genere esigente che non perdona il tradimento. Il romanzo può essere utilizzato come ripostiglio in cui sbattere di tutto, cosa che è impossibile fare col racconto, in cui bisogna misurare lo spazio assegnato alla descrizione, al dialogo, alla sequenza, in cui il minimo errore nell’architettura risalta. Anche i compiacimenti». E ancora: «Da lettore, trovo che la maggior parte dei libri non sia della dimensione giusta: uno è di trecento pagine quando il soggetto ne regge a stento un centinaio, un altro si ferma a centoventi quando ce ne vorrebbero cinquecento. Perché la critica letteraria continua ad evitare questo criterio di valutazione? Si accontenta tutt’al più di sottolineare le lungaggini, ma solo quando sono terribilmente flagranti (…) Molti romanzi sono come il cosiddetto pâté di allodola, in cui di allodola c’è una minima parte e il resto è pâté equino: cioè più riempimento che elementi puri. Spesso e volentieri il romanziere punta ad accumulare pagine, le descrizioni esaustive diventano constatazioni da ufficiale giudiziario, i dialoghi mimano la vita e distruggono lo stile, vengono riciclate arbitrariamente teorie e moltiplicate le peripezie come un cancro».

Osservazioni argute ed efficaci, anche se a volte un po’ radicali: «Il romanzo è “art pompier”», afferma Schmitt, per poi pentirsene qualche riga dopo: «Rileggendo il paragrafo precedente mi rendo conto che sono caduto nella trappola della polemica: il pensiero binario (…) In conclusione, apprezzo sia il romanzo che il racconto, ognuno per differenti motivi». Quello che Schmitt tace è il pericolo implicito del racconto breve: l’accelerazione, la condensazione, la sommarietà. L’opposto speculare delle lungaggini in cui può incorrere il romanzo. Nel racconto, lo scrittore rischia l’eiaculatio praecox come un adolescente alle prime esperienze col sesso: sovrastato dalla storia, non riesce a governarla e affretta i tempi. È uno dei motivi per cui gli scrittori alle prime armi scelgono spesso la forma-racconto anziché il romanzo. È la fretta degli inesperti. O, qualche volta, forse il risultato delle pressioni editoriali sugli scrittori di fama mediatica, come lo è Schmitt.

Edizione esaminata e brevi note

Eric-Emmanuel Schmitt (Sainte-Foy-Lès-Lyon, 1960), è romanziere e autore teatrale di fama internazionale. Due suoi romanzi (“Odette Toulemonde” e “Monsieur Ibrahim e i fiori del corano”) sono stati trasposti sul grande schermo.

Eric-Emmanuel Schmitt, “Concerto in memoria di un angelo”, ed. e/o, Roma, 2010. Traduzione di Alberto Bracci Testasecca.

Approfondimento in rete: www.wuz.it/intervista-libro/5052/intervista-eric-emmanuel-schmitt.html;  http://www.wuz.it/recensione-libro/5040/eric-emmanuel-schmitt-concerto-memoria-angelo.html.

Elettra Santori, 2011