A quanto pare Israel Joshua Singer avrebbe voluto scrivere un’autobiografia in più volumi. A quanto pare “Di un mondo che non c’è più” doveva rappresentare il primo di tali volumi. A quanto pare, però, di volumi non ce ne sono altri e l’autobiografia dello scrittore polacco nato a Biłgoraj nel 1893 termina con la sua infanzia ossia a pagina 276 di questo libro. Che è un ottimo libro. Una lettura affascinante e trascinante fin dalle primissime pagine. D’altro canto l’arte di raccontare storie è una prerogativa incontestabile di Israel Singer, un talento che traspare in tutto il suo fulgore anche da una raccolta di ricordi personalissimi come questa. Recuperare le immagini, le voci, i personaggi della propria infanzia è un ricostruirsi attraverso frammenti visto che, come scrive lo stesso Singer, “Il cervello umano è davvero astuto, ed è incredibile la sua capacità di trattenere e serbare come tesori eventi del tutto insignificanti e di scartare deliberatamente cose importanti che preferisce dimenticare“. Ricordo dopo ricordo, Singer racconta magnificamente, con la sua innata ispirazione romanzesca, un mondo che, per lui e per noi, è ormai definitivamente scomparso. Un mondo legato ad un piccolo shtlet (villaggio) polacco fondato da alcune famiglie ebree scacciate dai russi e costrette ad acquistare della terra dal nobile Christowski, il possidente goy (non ebreo) del luogo. Appezzamenti sabbiosi non molto distanti dalla Vistola sui quali prende vita lo shtlet di Leoncin che, all’arrivo di Israel e della sua famiglia, è popolato da circa duecento persone e disseminato di botteghe artigiane di ogni genere.
Leoncin è dunque il villaggio dove il padre di Israel, Pinchas Mendl, aveva deciso di rimanere visto che, neanche a farlo apposta, agli ebrei del luogo serviva un rabbino in grado di predicare e giudicare e dirimere questioni di ogni genere. Eppure Pinchas Mendl Singer, per cultura e preparazione, avrebbe potuto aspirare a ben altro se solo avesse avuto coraggio e voglia di sostenere un esame di fronte ai governanti russi. Ma Pinchas Mendl è un uomo troppo preso dalle sue letture e dalle interpretazioni della Torah per impiegare il suo tempo nello studio della lingua russa necessaria ad ottenere il riconoscimento ufficiale come rabbino di qualsiasi altro luogo. Il padre di Israel si accontenta di un incarico ufficioso e a lui basta. E’ una persona semplice, gioviale e fin troppo ingenua, crede profondamente in Dio e si fida facilmente di chiunque. Si rimette alla provvidenza e a ciò che il Creatore decide per lui e per tutti. A nulla valgono le recriminazioni o le esortazioni di sua moglie Basheva Zylberman. La donna, una “studiosa nata”, la vera “intellettuale” della famiglia, capace di leggere e comprendere i passaggi più complicati dei testi sacri al pari di un uomo, vorrebbe che il marito guadagnasse di più e non costringesse lei e i loro figli a vivere in uno stato di difficoltà costante. Eppure le sue richieste sono destinate a tracollare miseramente al cospetto della totale indifferenza del marito rabbino.
Nei ricordi di Israel Joshua entrano, pagina dopo pagina, figure e personaggi che hanno popolato la sua infanzia. I soggetti più stravaganti della comunità di Leoncin, ma anche i membri della sua famiglia. C’è spazio per descrivere i suoi studi e i suoi maestri, le sue passioni e le sue scorribande di bambino curioso ed irrefrenabile. Ovviamente tutti pensano che a Joshua tocchi un futuro da rabbino, come suo padre e suo nonno e suo bisnonno e via dicendo. A soli tre anni, avvolto in uno scialle da preghiera turco, viene condotto da suo padre presso il cheder (scuola elementare) di reb Mayer ed inizia il suo percorso di conoscenza della Torah. Studiare, studiare, studiare. Non è previsto altro. Ma Israel Joshua Singer è soprattutto un bambino che ama i cavalli, ama correre tra gli alberi sotto il sole, ama circondarsi di altri bambini e, soprattutto, ama ascoltare storie e conoscere e capire anche quello che, soprattutto per ragioni religiose, gli sarebbe proibito.
“Di un mondo che non c’è più” è un’autobiografia, certo, ma è anche un romanzo meraviglioso. La celebrazione di un’epoca, un popolo e una terra che, quando il romanzo è stato pubblicato per la prima volta, nel 1946, dopo la morte dello stesso autore, erano stati già devastati dalla guerra e dal nazismo e quindi persi per sempre. Singer ci conduce dentro una sorta di gigantesca fiaba ebraica e, soprattutto, ci permette di entrare nel cuore di un’autentica comunità di ebrei chassidim, dentro le loro rigide regole, dentro le loro credenze, dentro le loro scaramanzie e al cospetto di antiche tradizioni. E’ un viaggio meraviglioso e coinvolgente anche perché viene trasmesso con tutta la passione e l’affetto di un uomo che ricorda con entusiasmo la propria vita. Non c’è mai malinconia né disillusione, anzi. Da ogni passaggio, da ogni aneddoto, da ogni minuscolo evento narrato traspare grande ironia e leggerezza e vitalità. E’ un mondo perduto, certo, ma è pur sempre recuperato e filtrato dagli occhi e dall’anima di un bambino e, proprio per questo, intriso di una candida magia e di immenso stupore.
Edizione esaminata e brevi note
Israel Joshua Singer è nato a Biłgoraj, in Polonia, nel 1893. E’ il fratello maggiore del premio Nobel Isaac Bashevis. Ha esordito nel 1922 con i racconti Perle, in yiddish, e continuò a scrivere in quella lingua anche dopo essersi trasferito a New York nel 1933. I fratelli Ashkenazi (2011), ritenuto universalmente il suo capolavoro, A oriente del giardino dellEden (2015), La fuga di Benjamin Lerner (2015) e la raccolta di racconti Una primavera tardiva (2015) sono tutti pubblicati da Bollati Boringhieri.
Israel Joshua Singer, “Di un mondo che non c’è più“, Bollati Boringhieri, Milano, 2015. Traduzione di Marina Morpurgo.
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