Enriquez Mariana

Quando parlavamo con i morti

Pubblicato il: 4 Novembre 2014

Tre racconti, cento pagine: Quando parlavamo con i morti. Una piccola raccolta, questa di Mariana Enriquez, scrittrice argentina, da leggere possibilmente tutta d’un fiato. Perché? Perché è scritta (tradotta da Simona Cosentino e Serena Magi per Caravan Edizioni) in una sorta di sospensione continua: c’è sempre qualcosa che sta per accadere, c’è sempre una tensione che non sai esattamente dove porta; perché è una prosa giornalistica dell’orrore quotidiano, quello di cui ci si accorge solo quando esplode, ma che in fondo c’è sempre e si sedimenta piano piano. In tutti e tre i racconti si parte da situazioni apparentemente stabili, definibili come “normali”, in cui si aziona una scintilla, più o meno forte, più o meno inquietante, ma che comunque può essere fatta rientrare nella “normalità”, ed ecco che avviene un “contagio” (usa questa parola la stessa autrice nella prima parte di un’intervista) che si fa inarrestabile e sembra trascinare via le vite dei personaggi verso chissà dove.
Quando parlavamo con i morti è il titolo, oltre che della raccolta, del primo dei racconti, in cui un gruppo di ragazzine compra una tavola ouija per parlare, appunto, con i morti. La fascinazione dell’adolescenza verso l’altro, l’ignoto, un certo senso del macabro, forse, e curiosità tra il divertimento e il timore. Ma cosa succede se si prova a cercare i desaparecidos?
“A quell’età hai sempre la musica in testa, come se una radio trasmettesse nella nuca, sotto il cranio. Un giorno, questa musica comincia a suonare più bassa, o semplicemente si ferma. Quando ciò succede smetti di essere adolescente. Ma non era neanche lontanamente il caso dell’epoca in cui parlavamo con i morti. Anzi, ai tempi la musica era a tutto volume e suonava come gli Slayer di Reign in blood.” (pag. 11)
Ne Le cose che abbiamo perso nel fuoco l’autrice, nella stessa intervista già citata, rivela di essere partita da un caso di cronaca: un uomo durante un litigio ha versato dell’alcol sulla sua compagna e le ha dato fuoco. La donna è morta per le ustioni riportate. Enriquez ha immaginato, dato un punto di partenza simile, un possibile sviluppo, estremizzandolo al punto da far sì che le stesse donne decidessero di darsi fuoco, diventando “donne ardenti”, mettendo su un’organizzazione femminista per portare avanti questi auto-roghi.
“Non smetteranno, aveva detto la ragazza della metro in un’intervista televisiva. Guardate il lato positivo, diceva, e rideva con quella bocca da rettile. Almeno adesso l’hanno fatta finita con la tratta delle donne, perché nessuno vuole un mostro bruciato, non le vuole nessuno queste pazze argentine che a un certo punto prendono e si danno fuoco. E magari danno fuoco anche al cliente.” (pag 38)
Il terzo ed ultimo racconto è Bambini che tornano. Una ragazzina prostituta scompare, è creduta morta, coinvolta in un giro di snuff-movie (video amatoriali in cui vengono filmate violenze reali, fino alla morte, per circuiti clandestini. Ricordo un film, 8 mm – Delitto a luci rosse, di Joel Schumacker, con Nicholas Cage come protagonista, che tratta appunto di questo argomento. Video di cui non è mai stata trovata traccia reale, ma idea che film e fiction hanno ripreso varie volte), quindi ricompare. E con lei ricompaiono altri, tanti, bambini e ragazzini scomparsi, come se per loro il tempo si fosse fermato al momento della loro scomparsa. Ma non sono più le stesse persone di prima, le famiglie non vogliono avere niente a che fare con loro (dopo un primo momento in cui vengono accolti), occupano un parco, sembrano non avere nessun tipo di bisogno, e infine si rifugiano in un palazzo deserto, circondati dalla polizia.
“Non mi ricordo bene, ma è una cosa del genere: i giapponesi credono che dopo la morte le anime vanno in un luogo che ha, diciamo, una capienza limitata. E quando si raggiunge il limite, quando non c’è più spazio, le anime iniziano a tornare in questo mondo. Il loro ritorno è in realtà l’annuncio della fine del mondo.” (pag. 82)
Non sono forse storie così originali, né è questo l’importante, perché quello che importa è la capacità di chi scrive di tenerti incollato alla pagina, di destare la tua curiosità, di nutrirla mano a mano che le azioni si susseguono, e di riuscire a farti rimanere con la voglia di saperne di più, di appagarti e al tempo stesso lasciarti un margine su cui continuare a coltivare la tua immaginazione.
Sono racconti così, questi, che continuano a lavorare dentro chi li ha letti, che riescono a restare impressi per il loro rimanere sospesi, per il loro raccontare non un momento qualunque, ma quel momento in cui accade ciò che muta tutto il mondo, o forse solo lo sguardo dei protagonisti sul mondo; come proseguono le loro vite non è affare da essere narrato, perché da quegli istanti tutti i successivi possono essere immaginati nelle loro linee-guida, o almeno si ha la sensazione di poterlo fare. I racconti, quelli che per me sono buoni racconti, sono quelli capaci di farti intuire un mondo mostrandotene solo una parte, sono quelli che ti aprono una porta, o alcune porte, o persino una finestra, una botola, un buco in una parete, e ti accompagnano bendato fino a una di queste aperture,  quindi ti tolgono la benda e ti lasciano sulla soglia: sta a te varcarla. Mariana Enriquez, in questa raccolta, fa proprio così: ti prende per mano e ti accompagna per un tratto di strada. Finisce la prima storia e tu decidi di leggere la seconda, che è un altro tratto di strada. Arrivi alla fine della terza storia e ne vorresti una quarta, ma non la trovi. Allora ti volti indietro, ripassi con la mente le pagine lette e ti accorgi che non si sono esaurite, che nascondono altre storie, che magari riguardano, un po’, anche te.

Edizione esaminata e brevi note

Mariana Enriquez (Buenos Aires, 1973) è giornalista e scrittrice. Collabora con «Radar», supplemento di «Pagina/12», e con le riviste «TXT», «La mano» e «El Guardian». Ha pubblicato Como desaparecer completamente (2004), Los peligros de fumar en la cama (2009) Alguien camina sobre tu tumba (2013). Predilige le atmosfere dark, ma se altrove ha sperimentato il genere horror (come in No entren al 14GB, antologia dedicata a Stephen King), nei tre racconti di Quando parlavamo con i morti la paura ha sempre connotati metafisici e metaforici, con richiami alla storia dell’Argentina e alla condizione della donna.

Mariana Enriquez, Quando parlavamo con i morti, trad. di Simona Cosentino e Serena Magi, Caravan edizioni, 2014. Pp. 112 Euro 9,50

La pagina del libro con la rassegna stampa sul sito Caravan.

Curiosità: Como desaparecer completamente è How to disappear completely in inglese, e titolo di una canzone dei Radiohead.

ab, novembre 2014, lankelot