I sonderkommandos erano i gruppi speciali di deportati adibiti ad un compito infamante: collaborare con i nazisti quale manovalanza di sterminio ebraico. In pratica questi detenuti avevano il compito di condurre i loro compagni alla morte, e poi venivano costretti a rimuovere i corpi dalle camere a gas e a procedere alla cremazione. Gruppi speciali che erano destinati comunque ad una periodica eliminazione, sempre per non lasciare testimonianza di quanto accadeva: coloro che appartenevano ad un sonderkommando oltre a portarsi sulle spalle la piena consapevolezza di partecipare allo sterminio del proprio popolo, sapevano bene che prima o poi quella fine sarebbe toccata anche a loro. Un destino di morte che li rendeva estranei anche ai loro compagni di prigionia e ai loro correligionari e che ancora godono di pessima letteratura, vuoi perché accusati di non essersi ribellati, vuoi di non aver preferito la morte a quell’orrido lavoro. In realtà, anche considerando il fatto che ci sono state effettivamente delle ribellioni, le vicende che hanno visto protagonisti i sonderkommandos sono molto più complicate, col tempo si è dovuto ammettere che erano squadre composte da elementi tutt’altro che omogenei e la loro storia non si presta perciò a giudizi tranchant. Di tutto questo ce ne rendiamo conto leggendo l’ampia introduzione a “Sonderkommando” a cura di Philippe Mesnard e Carlo Saletti: oltre quaranta pagine che valgono l’acquisto del libro edito dalla Marsilio e che precedono la testimonianza di Salmen Gradowski, un ebreo polacco autore di alcuni scritti testimoniali in lingua yiddish che furono ritrovati poco dopo la liberazione del campo di Birkenau.
I due curatori ci hanno proposto una vera e propria storia critica dei sonderkommandos, citando molte altre testimonianze di semplici internati: coloro che appartenevano al gruppo di manovali al servizio delle SS evidentemente “erano percepiti come un prodotto dell’incubo” (pag. 13) per come si muovevano (“scomparivano senza lasciare traccia, nel più totale mistero”) e per come si presentavano, vuoi per il pestilenziale tanfo di morte di cui erano impregnati, vuoi per il loro aspetto (“erano sempre sporchi, del tutto trascurati, selvaggi”). Un pregiudizio, anche comprensibile, che li descriveva come fossero stati scelti solo e soltanto tra “i peggiori criminali condannati per gravi reati di sangue”. La realtà chiaramente era molto diversa e a riguardo risultano di grande interesse le parole dello psicologo Andrea Devoto, autore di un libro edito dalla Franco Angeli sul comportamento umano in condizioni estreme ed in particolare degli appartenenti ai sonderkommandos: “è plausibile che in tali condizioni si superasse anche la fase della crisi d’identità e si arrivasse, letteralmente, ad una perdita dell’Identità” (nota a pag. 44). In questo senso gli scritti di Salmen Gradowski, testimonianza a lungo ignorata probabilmente a causa della pessima considerazione di cui godevano i sonderkommandos, ci raccontano di una persona che ha fatto di tutto per non perdere la propria identità, lanciando ripetute invettive nei confronti di quelli che sapeva sarebbero stati i suoi assassini. Sempre grazie a Mesnard e Saletti sappiamo che Gradowski in età giovanile aveva avuto delle velleità letterarie e così appare plausibile che scrivere, seppur in condizioni estreme, testimoniare il terrore di coloro che andavano a morire e vedevano sparire nel nulla i propri cari, poteva rappresentare un mezzo efficace per non perdere del tutto la lucidità e sperare che prima o poi qualcuno avrebbe fatto giustizia.
Scritti che quindi vanno giudicati soprattutto per il loro valore testimoniale, di documento storico piuttosto che letterario: forse proprio perché l’istinto di conservazione portava a rivivere antiche abitudini giovanili, quando l’età e la libertà promettevano ben altro futuro, lo stile ci è apparso spesso involuto, fin troppo enfatico. Ma al di là delle questioni stilistiche, decisamente molto relative, le pagine di Gradowski, dense di una pietà smisurata nei confronti del suo popolo e che fanno a pugni con l’immagine di spietatezza ritagliata sui sonderkommandos, potranno colpire il lettore soprattutto con il racconto della disperazione di coloro che si dovevano spogliare dei loro abiti, dell’ingresso degli ebrei nelle camere a gas e poi, finita la “disinfestazione”, i sonderkommandos alle prese con cataste di corpi, in mezzo ad un’immane sozzura, l’operazione di estirpare denti d’oro, gioielli, capelli e il successivo rogo nei forni. Opportuna la citazione di Elie Wiesel presente in quarta di copertina: «Di Auschwitz non si saprà mai tutto perché alcuni accadimenti sembrano destinati a rimanere senza parole».
Edizione esaminata e brevi note
Salmen Gradowski, ebreo polacco, nacque nel 1909 a Suwalki, vicino al confine lituano, e venne deportato ad Auschwitz nel dicembre del 1942. Assegnato al Sonderkommando di Birkenau, fu ucciso dai nazisti probabilmente il 7 ottobre 1944, dopo la rivolta di parte della squadra speciale in servizio ai crematori. È autore di alcuni scritti testimoniali, redatti in lingua yiddish durante il periodo di prigionia e sepolti nel terreno di Birkenau, ritrovati nei mesi successivi alla liberazione del campo.
Salmen Gradowski, “Sonderkommando. Diario da un crematorio di Auschwitz, 1944”, Marsilio (collana Tascabili Maxi. Testimonianze) Venezia 2014, pp. 221. A cura di Philippe Mesnard e Carlo Saletti.
Luca Menichetti. Lankelot, febbraio 2015
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