L’abete nel cerchio è un’opera prima. Non perché l’autore, Enrico Macioci, sia un esordiente. Affatto. Già al suo terzo romanzo edito (più una raccolta di racconti), è scrittore colto e capace di fondere atmosfere intense, tridimensionalità d’ambientazione e di trama e raffinata cura stilistica. Ma L’abete nel cerchio è la sua prima opera poetica. “Prima”, tuttavia, non solo perché in precedenza non ne aveva pubblicate altre; soprattutto, perché scende al cuore delle questioni prime, come i numeri primi – no, non quelli associati a liquori letterariamente vincenti, ma precisamente i mattoni non divisibili se non per uno e per se stessi. I versi di Enrico Macioci, infatti, attengono precisamente a questi due elementi: l’Io e l’Uno. Riguardano l’essenza delle cose riflessa nella soggettività e il suo reciproco. La Natura come percorso d’individuazione, in una chiave che non esito a riconoscere come junghiana e – particolare raro, nello scenario artistico odierno – spirituale.
Questa silloge poetica fotografa pregnantemente un pensiero sensibile e sensitivo, che nelle pieghe del paesaggio materiale scorge segnali che, come sottili spinte, incentivano, controllano e correggono l’andamento del suo divenire. In questo, vi è una misura di compresenza di opposti, una capacità di cogliere intuitivamente l’essenza dell’intero cosmo. Sarebbe dunque appropriato definirla una poesia filosofica, o forse sapienziale, che mi viene istintivo associare a certi frammenti eraclitei. Penso in particolare ad alcuni versi della prima delle quattro parti che formano l’opera.
Episodio di sole
sul muro.
È sera, più puro
duole il futuro.
(pag. 9)
Nella grazia dell’istante, si accende un’illuminazione che non fa sconti sulle ombre, ma insieme, quasi incidendole, apre squarci di chiaroveggenza che si affacciano su una dimensione trasversale – eterna.
Il punto di osservazione resta sempre il qui, i piedi sono ben piantati a terra, ma i canali percettivi si connettono istantaneamente con quella comprensione pluridimensionale. Come leggiamo in Freddo,
(…)
una bocca
di glaciali stelle
inghiotte
l’aldiqua
(pag. 25)
Ne risulta una radicale inclusione del qui nell’Oltre, ma anche lo sprofondare del momento presente in abissi illimitati. In In limine, per converso,
(…)
l’aldilà t’impregna
le suole
(pag. 31)
Questo aldilà, peraltro, si rivela tanto nella sua valenza spirituale quanto in quella cosmica.
LA STANZA
sono l’isolata
stanza dai muri
d’ombra, al cosmo
devota, vuota d’ogni
lume
siedo al centro,
mi perdo nel suo
chiuso mai finire
e cerco rifugio
fuori
a una stella
m’appendo che sarà
dopo me, dentro me
(pag. 35)
I versi di Macioci sembrano cogliere – e sciogliere – l’apparente contraddizione tra la fredda infinità del cosmo e il risonante pulsare dello spirito nei sentieri del mondo.
Dio verrà poi espressamente nominato come “metro” della realtà, ma un metro difficile da cogliere; presente, sì, ma con risonanze sfuggenti, plurisemantiche, protese in molteplici direzioni.
METRATURA
la metratura dell’anima
esige lo spago di Dio
dammelo per favore,
è lì, dove non puoi
vederlo, vedi?
Il confine all’infinito
rimanda, frontiera
da tempo passata
al futuro
(pag. 36)
Ecco allora manifestarsi il concetto del cerchio, in cui si riflette il mistero della circolarità del tempo, dell’eterno ritornare dei momenti vissuti, nel quale si svelano significati legati a simboli e sincronicità.
NOI SIAMO IN QUESTO CERCHIO
quest’ora
è un cerchio
e noi
ci siamo dentro
noi siamo
in questo cerchio
e Dio ci guarda,
intagli di moneta
(pag. 39)
E l’abete? È la presenza naturale inscritta in questa circolarità dell’essere, e in essa trovano una propria sintesi la vita vegetale e quella animale e, specificamente, quella umana, che ricentrandosi nella propria radice ritrova il senso del proprio esistere.
RESURREZIONE
sono stanco
di morire
vivrò come foglia,
l’autunnale dubbio
sino all’autunno
e oltre
sul lago
rimbalza la pietra,
ma luce risale dal buio,
totale intride le acque
(pag. 47)
L’abete, in altre parole, è il luogo della meditazione e del risveglio della coscienza. Come leggiamo in Tavola calda,
a gambe incrociate
sotto l’abete gocciolante,
dove il cerchio è asciutto
(…)
(pag. 50)
E questo risveglio della coscienza è un emergere dal profondo, dalle regioni dello sconcerto e del contatto viscerale con la quintessenza dell’identità, il Sé, punto d’intersezione tra la dimensione orizzontale (il cerchio) e la vertiginosa verticalità dell’intuizione ancora non compenetrata dalla ragione.
PREGHIERA
l’uomo
ho visto pregare
nella conca erbosa
delle Sue mani
nel vento
l’ho visto invocare,
torcia di fede
in cosa credesse
non so, ma credeva
di sapere ciò che dentro
di sé ancora saliva
(pag. 67)
Macioci, come un abile compositore-esecutore, capace di padroneggiare tutti i registri timbrici, coglie l’inequivocabile (e quasi inafferrabile) convergere e con-fondersi di tutti questi piani di significato. Nel qui e ora, scova il coesistere del microscopico e del macroscopico, la pregnante forza lirica dei fotogrammi d’ambiente e la contiguità di presenze di puro spirito.
COSCIENZA
questo enigma che sono
le cose, i fatti, svanisce un
poco subito dopo la pioggia,
quando nel vetro risplendono
i morti e tutto è terso,
e il gabbiano ferito si tuffa
nella gola del cosmo,
un buco d’acqua e nubi
e astri accesi fra le
nostre lacrime, adesso
(pag. 76)
La poesia, quindi, è parola creatrice, che (in)taglia il mondo, e nel far così raccoglie molteplici entità che sono riflesso di un’unica essenza. Tutto questo trasuda dalla natura, che il poeta percorre come un pellegrino o un viandante dotato di specialissime antenne.
DIRE
davanti a un lago di
declinanti nuvole,
davanti al colle
già freddo, la notte
già sui rami, già
sui monti l’immenso
malessere del cosmo,
cosa posso dire?
Eppure dico, e
fendo –
(pag. 77)
È precisamente in questo fendo – potentissimo, isolato alla fine della poesia ed evidenziato in corsivo – che si riassume tutta la potenza del Verbo, la parola creatrice che è fonte della vita e che ogni volta, nell’atto di dire poeticamente, si rinnova con una piccola, inestimabile scintilla.
Un’ultima osservazione. Si sarà notato che in queste mie riflessioni non ho fatto cenno a possibili affinità o consonanze con altri poeti del passato. Non perché non ve ne siano: i versi di Macioci presentano, tra i vari esempi possibili, a volte risonanze dannunziane, altre volte ungarettiane, e riecheggiano i grandi poeti della Natura della tradizione americana (penso a Ralph Waldo Emerson e a Walt Whitman, in particolare), risalendo anche alla forza pervasiva dei lirici greci (Alceo, Saffo e Alcmane, in particolare). Ma tutto questo è secondario, perché rifiltrato – e dominato – dall’impronta incandescente degli smarrimenti e dei continui ritorni di presenza dell’autore, impegnato in un moto d’onda interiore simile alla regolarità dei cicli di rivoluzione dei pianeti: sempre uguale a se stessa, ma mai perfettamente identica. Residua sempre una (essenziale) virgola d’imprevedibilità, che spiazza costantemente, gettando nelle cose quel cono d’ombra che, mentre nasconde provvisoriamente la luce, genera l’inestinguibile urgenza di cercarla – o di farsene trovare.
Edizione esaminata e brevi note
Enrico Macioci è nato all’Aquila nel 1975. Si è laureato in Giurisprudenza con una tesi di diritto tributario e in Lettere Moderne con una tesi su Cuore di tenebra di Ha pubblicato la raccolta di racconti Terremoto (Terre di mezzo, 2010) e i romanzi La dissoluzione familiare (Indiana, 2012), Breve storia del talento (Mondadori, 2015) e Lettera d’amore allo yeti (Mondadori , 2017). Collabora con “Repubblica”. L’abete nel cerchio è la sua prima silloge poetica.
Enrico Macioci, L’abete nel cerchio, Marco Saya Edizioni, 2017.
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