Penultimo libro di Sciascia, “Il cavaliere e la morte”, uscito per i tipi di Adelphi poco prima che lo scrittore siciliano morisse. Il titolo, come intuibile, fa riferimento ad un’opera di Albrecht Dürer, l’incisione “Il cavaliere, la morte e il diavolo” (1514). Ed è proprio di fronte a questa magnifica incisione che si trova il Vice, il protagonista, all’inizio della narrazione. Oltre a lui, che ricorda di aver acquistato quel capolavoro senza nemmeno sapere quale fosse il valore reale, appare presto in scena il Capo, suo superiore: “Erano quasi colleghi; si conoscevano da anni; e perciò si permetteva, ma senza malanimo, impertinenze, ironie, battute anche sferzanti. E il Capo lasciava correre per la soggezione che l’incomprensibile lealtà al Vice nei suoi riguardi gli dava”.
I due devono risolvere un caso di omicidio. L’avvocato Sandoz è stato ucciso e il primo interrogato è un ricco e potente Presidente “e non occorreva aggiungere delle Industrie Riunite, poiché in quella città il presidente in assoluto era lui, specificare era necessario per tutti gli altri presidenti, quello della Repubblica incluso”.
Vengono così alla luce delle minacce che la vittima aveva ricevuto negli ultimi tempi e che aveva giudicato ridicole, innocue ed inoffensive. I figli dell’ottantanove, da loro provenivano i messaggi minatori nei confronti dell’avvocato che, chiaramente, aveva sottovalutato il pericolo. 1989? 1789? Nel primo caso, un tempo a venire. Nel secondo, un riferimento ad una rivoluzione epocale. Eppure il Vice, che protende per la seconda spiegazione, nutre numerosi dubbi. Per questo decide, del tutto informalmente, di parlare con alcune persone. E, del tutto informalmente, scopre dei dettagli relativi ai reali rapporti tra Sandoz e il Presidente. Un legame apparentemente amicale che, in verità, cela situazioni tesissime ed inquiete. Il Vice si rende conto che l’avvocato era a conoscenza di affari piuttosto loschi e che i figli dell’ottantanove potrebbero essere solo un’invenzione, una falsa pista messa a punto per confondere e sviare i sospetti.
La forza di questo breve romanzo non è tanto nella trama della vicenda poliziesca che, in ogni caso, avvince, ma in tutto ciò che la circonda. La sensazione è che Sciascia abbia usato la storia dell’assassinio come un pretesto perché, in realtà, voleva parlare di ben altro.
In primis continuare, come spesso ha fatto in numerosi suoi romanzi, ad evidenziare la ricorrente debolezza della verità, il suo perenne svuotarsi di fronte a determinate condizioni. La difficoltà di combattere, anche da parte di chi gestisce ed amministra la giustizia, contro un potere troppo forte e radicato. Il potere di personaggi che, grazie al loro ruolo e alle loro insinuanti faccende, sono pesci troppo grandi da incolpare o coinvolgere. Figure che sfuggono alla giustizia solo perché appartengono alla categoria degli “intoccabili”. E anche nel momento in cui la loro colpa è palesata, riescono comunque ad insabbiare e nascondere, di conseguenza a sottrarsi alle loro gravi responsabilità. Come quella di un omicidio, per esempio. Sciascia descrive, ancora una volta, la frustrazione degli uomini che, per mestiere e per indole, cercano quella verità. Uomini avviliti e perdenti, esattamente come il diavolo dell’incisione di Dürer: “In quanto al diavolo, stanco anche lui, era troppo orribilmente diavolo per essere credibile. […] Ma il Diavolo era talmente stanco da lasciar tutto agli uomini, che sapevano fare meglio di lui”.
Ne “Il cavaliere e la morte”, inoltre, Sciascia lascia trasparire il senso profondo della fine. Della sua fine. Quando il libro uscì, in molti capirono che lo scrittore stava per morire. Il Vice è un uomo malato di cancro che, però, non muore di cancro. Sciascia era malato e pienamente cosciente che non sarebbe vissuto ancora a lungo. La malattia è il fil rouge di tutto il libro. Il dolore, “una bestia – piccola, feroce ed immonda – agguatata in un solo punto del suo corpo, del suo essere”. E sulla figura della Morte, davanti all’opera di Dürer, Sciascia (Vice) riflette amaramente: “L’aveva sempre un po’ inquietato l’aspetto stanco della Morte, quasi volesse dire che stancamente, lentamente arrivava quando ormai della vita si era stanchi. Stanca la Morte, stanco il suo cavallo: altro che il cavallo del Trionfo della morte e di Guernica. E la Morte, nonostante i minacciosi orpelli delle serpi e della clessidra, era espressiva più di mendicità che di trionfo. «La morte si sconta vivendo». Mendicante, la si mendica”.
Edizione esaminata e brevi note
Leonardo Sciascia nasce a Racalmuto, provincia di Agrigento, nel 1921. La sua prima opera, Favole della dittatura, risale al 1950. L’attività letteraria di Sciascia tocca vari ambiti, dalla narrativa con opere come Le parrocchie di Regalpetra (1956), Gli zii di Sicilia (1958), Il giorno della civetta (1961), Il consiglio d’Egitto (1963), A ciascuno il suo (1966), Il contesto (1971), Todo modo (1974), La scomparsa di Majorana (1975), Candido (1977); alla saggistica: La corda pazza (1970), Nero su nero (1979); alle opere di denuncia sociale ed episodi veri di cronaca nera: Atti relativi alla morte di Raymond Roussel (1971), I pugnalatori (1976) e L’affaire Moro (1978). Sciascia, nel 1979, accetta di candidarsi al Parlamento Europeo e alla Camera dei Deputati per il Partito Radicale. Riesce in entrambi gli ambiti, ma sceglie l’incarico di deputato, attività che porta avanti fino al 1983 occupandosi in maniera costante dei lavori relativi alla Commissione d’Inchiesta sul rapimento Moro. Le ultime opere di Leonardo Sciascia sono A futura memoria (pubblicato postumo) e Fatti diversi di storia letteraria e civile (1989). Lo scrittore muore a Palermo il 20 novembre del 1989. E’ sepolto a Racalmuto.
Leonardo Sciascia, “Il cavaliere e la morte“, Adelphi, Milano, 2009.
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