Eleganza. Ogni singola frase di questo breve romanzo trasmette eleganza. E misura, attenzione, garbo, intelligenza. “Gli occhiali d’oro” rappresenta anche una piccola rivoluzione. Conservando una forma letteraria e narrativa impeccabile, se non addirittura classicheggiante, descrive quanto di più anticonvenzionale ed inconsueto fosse lecito scrivere in quel lontano 1958, anno in cui apparve il romanzo di Bassani.
L’accostamento tra due diversità che, proprio per la loro essenza, generano similitudine, è una scelta quanto meno singolare. Le due “anomalie” sono, in fondo, come tante altre “anomalie”, solo negli occhi o nelle menti di chi osserva e giudica. Essere omosessuali o essere ebrei diventa così una condanna, sociale ma anche storica.
Ciò che sarà del dottor Fadigati, d’altro canto, lo sappiamo fin dal principio: “… che è finito così male, poveruomo, così tragicamente…”. Ciò che sarà dell’io narrante possiamo solo immaginarlo poiché il suo destino di ebreo viene annunciato ma non rivelato, precorso dalle leggi razziali, ma non conclamato apertamente.
Ferrara è la scena primaria, Riccione quella secondaria e temporanea. Bassani ci fa attraversare piazze e strade, si sofferma in luoghi precisi e non lesina nomi né cognomi. Una cronaca topografica ed anagrafica puntuale, quasi estrema. Cambiano gli spazi ma non le sensazioni. La gente resta quella che è. Così le voci, le insinuazioni sussurrate, e nemmeno tanto ben celate, sulle tendenze sessuali dell’onorato dottore giungono presto alle orecchie di tutti. “In genere, però, quasi non fossero troppo scontenti di essersi accorti del vizio di Fadigati con tanto ritardo (per rendersene conto avevano impiegato più di dieci anni, figurarsi!), ma anzi, fondamentalmente rassicurati, in genere sorridevano”. Bastava entrare nell’ordine di idee che il pingue dottore, ormai non più giovanissimo, vivesse due vite e che, per quanto possibile, mantenesse un certo decoro e una buona dose di discrezione, almeno.
Sul treno Ferrara-Bologna agli universitari si unisce presto il medico che, abbandonata la prima classe, sceglie di sedersi tra quei suoi ex pazienti, oramai lontani dai malanni infantili curati, anni prima, nel suo studio in via Gorgadello. Deliliers, il giovane più ammirato e sprezzante, dimostra immediata antipatia condita di velenose battute a doppio senso. Fadigati incassa e tace, sforzandosi di cercare un consenso che fatica ad arrivare.
Lo scandalo, sfrontato e per questo imperdonabile, giunge in estate, a Riccione. Fadigati è in coppia proprio con Deliliers: “Sulla spiaggia, affollata anche allora da ferraresi in villeggiatura con le famiglie, non si parlava che di loro, della loro «amicizia scandalosa»”. La signora Lavezzoli, moglie d’avvocato e madre di tre figlioli, è ben pronta a sparpagliare lungo il lido le sue puritane osservazioni su quel degenerato dottore e sul suo irriverente amichetto. Benpensante e altera, pettegola ma copia conforme della mentalità dominante. La stessa signora che, nella stessa estate, quella 1938, ammirava la forza e l’esuberanza del Duce, colui che “non dimentichiamolo, ci ha dato l’Impero”. La stessa signora che, durante le serate al Grand Hôtel, discorreva dell’innegabile grandezza della Germania hitleriana, seppur in compagnia di famiglie ebraiche.
Intanto, a fine estate, il giovane Eraldo Deliliers aveva repentinamente mollato il Fadigati non solo rubandogli quanto aveva, ma rifilandogli un bel pugno in faccia davanti a tutti. Ennesima delusione, ennesima figuraccia. L’onorabilità, in fin dei conti, era compromessa da tempo.
Tornati a Ferrara la storia ha in serbo “Provvedimenti del Gran Consiglio contro gli abrei”, come gridava Cenzo, il venditore di giornali. E inizia per il giovane studente, voce narrante, un momento di coscienza, di distacco, di terrore: “… diventato simile a un qualsiasi ebreo dell’Europa orientale che non fosse mai vissuto fuori dal proprio ghetto. Pensavo anche al nostro, di ghetto, a via Mazzini, a via Vignatagliata, al vicolo-mozzo Torcicoda. In un futuro abbastanza vicino, loro, i goim, ci avrebbero costretti a brulicare di nuovo là, per le anguste, tortuose viuzze di quel misero quartiere medievale da cui in fin dei contri non eravamo venuti fuori che da settanta, ottanta anni. Ammassati l’uno sull’altro dietro i cancelli come tante bestie impaurite, non ne saremmo evasi mai più”.
Perché è ciò che accadrà, come sappiamo, anche se il padre è rassicurato dall’avvocato Tabet che era sempre stato “«dentro alle segrete cose» della Casa del Fascio di Ferrara”. Una consolazione che ha tutta la fragilità di un desiderio, quello di vivere la normalità e la quiete che, invece, le leggi razziali del 1938 stanno per far saltare in aria. L’esclusione di un uomo, il dottor Fadigati, e l’esclusione di un popolo, quello ebraico. Un tracollo simile e devastante che porterà il primo a suicidarsi annegando nel fiume Po, presso Pontelagoscuro, e il secondo ad approssimarsi allo sterminio.
Edizione esaminata e brevi note
Giorgio Bassani è nato a Bologna nel marzo del 1916 da una famiglia ferrarese di origini ebraiche. Ed a Ferrara che Bassani vive la sua infanzia e la sua giovinezza, studiando presso il Liceo Classico Ariosto. Frequenta poi la Facoltà di Lettere a Bologna, dove si laurea nel 1939. Insegna italiano e storia agli studenti ebrei espulsi dalle scuole pubbliche e, durante la Seconda Guerra Mondiale, resiste al Fascismo come attivista clandestino. Nel 1943 si trasferisce a Roma. Pubblica nel 1944 le poesie di “Storie dei poveri amanti e altri versi”. Inizia così la sua carriera di scrittore, poeta, sceneggiatore, critico, giornalista, insegnante, consulente editoriale. La sua opera più nota è pubblicata nel 1962: “I giardini dei Finzi-Contini”. Muore a Roma, a causa di una malattia, il 13 aprile 2000. E’ sepolto nel cimitero ebraico di Ferrara.
Giorgio Bassani, “Gli occhiali d’oro”, Mondadori, Milano, 2009.
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