… nel giro di tre settimane ne è venuto fuori questo racconto. Come un sommesso omaggio ad Alessandro Manzoni, nell’anno in cui clamorosamente si celebra il secondo centenario della sua nascita.
Così Leonardo Sciascia nella Nota che chiude “La strega e il capitano”, libro pubblicato nel 1986. Lo spunto per la composizione di questo testo, che ha tutta l’aria e lo stile di un documento di ricostruzione storica, arriva dal capitolo trentunesimo de “I promessi sposi”. Qui Manzoni cita il protofisico Lodovico Settala, professore di Medicina ed autore di numerose opere reputatissime. I meriti del Settala però non impedirono al popolo milanese di vedere in lui una specie di untore: “Un giorno che andava in bussola a visitare i suoi ammalati, principiò a radunarglisi intorno gente, gridando esser lui il capo di coloro che volevano per forza che ci fosse la peste…”. Manzoni spiega anche che Settala riuscì a riconquistare “lode di sapiente” quando, con suo “deplorabile consulto, cooperò a far torturare, tanagliare e bruciare, come strega, una povera infelice sventurata, perché il suo padrone pativa dolori strani di stomaco”.
Ed è proprio alla “povera infelice sventurata” strega che Sciascia dedica il suo racconto. Caterina Medici, questo il suo nome, strangolata ed arsa in piazza il 4 marzo 1617. La volontà di chiarezza e di verità storica sono alla base del libro dello scrittore siciliano che, a differenza del Manzoni, ricostruisce nei dettagli la vicenda processuale di Caterina evitando di omettere i nomi dei prestigiosi personaggi coinvolti. Un’omertà manzoniana, e non solo, spiegata dallo stesso Sciascia come una sorta di deferenza nei confronti di famiglie influenti e troppo prestigiose per essere associate, seppur a distanza di secoli, a vicende tanto oscure ed ambigue.
Caterina Medici era la fantesca del senatore Luigi Melzi. Uomo potente, circondato da un nugolo di figli e, all’epoca dei fatti, poco più che sessantenne. Il senatore Melzi soffriva di strani dolori di stomaco, inspiegabili al gruppo di medici a cui si era rivolto. Malesseri che né il Settala (lo stesso di cui parla Manzoni), né il Clerici, né il Selvatico (altri due illustri uomini di scienza consultati dal senatore) riuscirono a spiegare e a guarire.
I primi sospetti di stregoneria nei confronti di Caterina iniziano a prendere forma quando in casa Melzi giunge il capitano Vacallo (30 novembre 1616). Costui, come folgorato da non si sa quali intuizioni oltre che suggestionato da una situazione personale risalente a qualche anno prima, inizia a congetturare che i dolori del senatore possano essere ricondotti alla presenza di Caterina. Ne parla prima con Gerolamo Melzi, figlio di Luigi, e poco dopo con il malato in persona. Le suggestive ipotesi di Vacallo, confermate da un certo Cavagnolo, nell’arco di pochissimo tempo, divengono accuse. Caterina viene denunciata come “strega professa” il 26 dicembre 1616. La donna, infatti, aveva confessato e confermato di praticare l’arte della stregoneria: Caterina Medici credeva di essere una strega o, quanto meno, aveva fede nelle pratiche di stregoneria. E forse una fede meno intera di quella dei suoi accusatori: poiché, in fatto di stregoneria, l’inquisitore e l’inquisito, il carnefice e la vittima, partecipavano dell’uguale credenza…
Caterina confessa di aver applicato dei malefici al senatore affinché lui si innamorasse di lei e di averli applicati con l’aiuto del diavolo. La donna viene interrogata spesso e da personaggi diversi ma l’esito non cambia: la scienza medica nulla poteva nella diagnosi del male di Luigi Melzi non per deficienza scientifica ma perché la medicina si annulla al cospetto dell’ostacolo diabolico. Un paradosso su cui Sciascia si sofferma in vari momenti e con sottilissima ironia.
Il processo di Caterina si svolge in tempi abbastanza rapidi. Accuse, domande, chiarimenti, confessioni. Caterina parla e spiega agli uomini di giustizia quello che probabilmente spera essi vogliono sentire. La tortura non fa che ampliare la sua disperazione. L’intento del Capitano di Giustizia è quello di giungere alla verità, con l’appoggio immancabile della Curia. Ma la tortura non porta ad alcuna verità: “è un mezzo per confondere la verità, non mai per iscoprirla”, scrive Pietro Verri nelle sue “Osservazioni sulla tortura”. Caterina fa altri nomi, probabilmente inventa situazioni e si auto accusa di malefici, malanni e morti di cui non ha alcuna responsabilità. Perché Caterina spera nel perdono e nella clemenza dei suoi aguzzini che, invece, fanno di lei una creatura da punire ed annientare affinché possa essere da monito e minaccia.
Con la morte di Caterina, dunque, la Giustizia aveva trionfalmente concluso il suo corso, i medici avevano trovato un capro espiatorio utile a coprire la loro inettitudine e la città di Milano aveva cancellato una delle tante presenze diaboliche che la infestavano.
Un libro breve, “La strega e il capitano”. Una vicenda ricostruita con attenzione e pervasa da costante spirito di giustizia. Sciascia ha voluto restituire alla storia di Caterina un senso di verità e dignità evidenziando, per contrasto, la povertà culturale ed umana di individui apparentemente preparati ed eruditi. Anche se si tratta di una vicenda minore, di un episodio dimenticato e sepolto dai secoli, la vicenda della Medici è emblematica di una fase storica molto importante e spesso trascurata. Un libro infarcito di citazioni, di frasi estrapolate da documenti risalenti al XVII secolo, di riflessioni sul mondo della giustizia civile e religiosa. E Sciascia non manca, in alcuni passaggi, di creare un parallelismo tra il passato e il presente quasi a voler sottolineare quanto spesso gli errori compiuti non siano serviti a rendere il tempo attuale migliore o più umano.
Edizione esaminata e brevi note
Leonardo Sciascia nasce a Racalmuto, provincia di Agrigento, nel 1921. La sua prima opera, Favole della dittatura, risale al 1950. L’attività letteraria di Sciascia tocca vari ambiti, dalla narrativa con opere come Le parrocchie di Regalpetra (1956), Gli zii di Sicilia (1958), Il giorno della civetta (1961), Il consiglio d’Egitto (1963), A ciascuno il suo (1966), Il contesto (1971), Todo modo (1974), La scomparsa di Majorana (1975), Candido (1977); alla saggistica: La corda pazza (1970), Nero su nero (1979); alle opere di denuncia sociale ed episodi veri di cronaca nera: Atti relativi alla morte di Raymond Roussel (1971), I pugnalatori (1976) e L’affaire Moro (1978). Sciascia, nel 1979, accetta di candidarsi al Parlamento Europeo e alla Camera dei Deputati per il Partito Radicale. Riesce in entrambi gli ambiti, ma sceglie l’incarico di deputato, attività che porta avanti fino al 1983 occupandosi in maniera costante dei lavori relativi alla Commissione d’Inchiesta sul rapimento Moro. Le ultime opere di Leonardo Sciascia sono A futura memoria (pubblicato postumo) e Fatti diversi di storia letteraria e civile (1989). Lo scrittore muore a Palermo il 20 novembre del 1989. E’ sepolto a Racalmuto.
Leonardo Sciascia, “La strega e il capitano”, Adelphi, Milano, 2004.
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