Aime Marco

Fuori dal tunnel. Viaggio antropologico nella Val di Susa

Pubblicato il: 8 Dicembre 2018

Da molti anni la cosiddetta “grande stampa” dipinge i “No Tav” della Val di Susa come una banda di cavernicoli pecorai, affetti da evidente sindrome Nimby: in altri termini personaggi ingenui, associati ad estremisti violenti che non sanno cosa vuol dire progresso e modernità. Un’immagine che la santificazione mediatica delle “madamine” ha rilanciato prepotentemente. Ben diverso quanto emerge invece in “Fuori dal tunnel” dell’antropologo Marco Aime: una ricerca, che tra l’altro si legge speditamente e risulta ben strutturata, “per capire meglio i difficili cambiamenti di una valle che ha deciso di non accettare le decisioni calate dall’alto” e che in etnografia si chiama “osservazione partecipante”; condotta mettendo a confronto quanto raccontato dai valligiani e dai media nazionali sia con grandi classici della sociologia e dell’antropologia, sia con le affermazioni contenute in libri come quelli di Calafati, di Mercalli, Giunti, di Revelli, di Cancelli, Sergi e Zucchetti; peraltro tutte pubblicazioni recensite anni fa su lankelot e lankenauta. Un tentativo di risposta quindi a domande che la grande stampa (impura) proprio non si pone: “Cosa rappresenta oggi la val di Susa? Un ultimo baluardo di resistenza contro le richieste, spesso miopi, della modernità?”.

Aime ha voluto sottolineare subito che non era sua “intenzione discutere la questione del tunnel per l’alta velocità dal punto di vista tecnico”, semmai “indagare sulle ricadute socioculturali che oltre vent’anni di lotta hanno provocato in val di Susa. Per esempio, il formarsi in bassa valle di una comunità di intenti e di saperi, che prima non esisteva o almeno non era animata dal legami e relazioni forti né da una conoscenza condivisa come ora”. Tanto da affermare che il movimento No-Tav non ha perso la sua spinta né la sua vocazione antagonistica ma “è diventato anche e soprattutto un movimento per e non solo un movimento contro” (pp.13). Un’opposizione basata su due elementi, il pericolo ambientale e l’inutilità dell’opera, che Aime più volte evidenzia grazie alle parole, spesso drastiche, di esperti del settore. Così Angelo Tartaglia, professore di fisica al Politecnico di Torino: “I proponenti l’opera hanno per anni manipolato dati e informazioni per convincere l’opinione pubblica e la stampa e la classe dirigente della sua innocuità e allo stesso tempo dimostrare che chi si oppone all’opera sia un gruppo di persone disinformate e ostili al progresso e all’interesse generale della nazione” (pp.40). Mentre  Tartaglia ed altri “No-Tav” hanno chiarito le loro posizioni con una ricca messe di dati – lo scrive direttamente Aime – “le motivazioni [ndr: dei favorevoli all’opera] sono piuttosto qualitative, vaghe, spesso ridotte a slogan come ‘l’Europa ce lo chiede’, ‘si tratta di un’opera strategica’, ‘non possiamo rimanere isolati’” (pp.50). Il nostro antropologo ha infatti riconosciuto, frequentando le assemblee, gli incontri, le conferenze organizzate della varie associazioni o semplicemente conversando con le persone che si ritrovano nei presidi, “che non si può non rimanere colpiti dalla notevole competenza mediamente dimostrata dai protagonisti del movimento No-Tav” (pp.44). Tanto da affermare che il movimento “ha dato prova di essere molto più preparato sul piano scientifico di quanto abbiano fatto gli esponenti istituzionali. La differenza sta nel fatto che da un lato si intende la scienza come vettore di uno sviluppo considerato buono a priori, mentre dall’altro si pensa che la conoscenza scientifica debba servire a decidere che cosa è bene per la comunità” (pp.143).

Non soltanto una diversa idea di scienza tra le pagine di “Fuori dal tunnel”, perché se leggiamo di come il progetto Tav in val di Susa sia “più il frutto di scelte di carattere economico, finalizzate ad interessi politico-privati, di quanto non siano il risultato di una reale strategia dei trasporti” (pp.132), questo calderone di dati fasulli e slogan ha rivelato tutti i limiti della nostra informazione. Puntuale allora la citazione tratta dallo studio di Calafati: “Se l’oggetto sul quale gli editorialisti si esprimevano sembrava avere contorni indefiniti, le argomentazioni con le quali veniva sostenuto il giudizio favorevole erano ancora più singolari – quando qualche argomentazione veniva proposta. In effetti, spesso gli articoli contenevano opinioni senza argomentazioni. Ancor più spesso, tuttavia, contenevano opinioni senza pensiero, giustificate con paralogismi, nessi casuali improbabili, tautologie senza significato. Articoli così palesemente mal costruiti, mal scritti da lasciar pensare che in quei giorni su quel tema ci si stesse esercitando, piuttosto, in una parodia di giornalismo” (pp.125). Tornando su questo aspetto di pseudo-informazione, Aime scrive che “al di là dell’immagine sensazionalistica e talvolta strumentale fornita dai nostri giornali e Tg, la parte violenta del movimento è quanto mai minoritaria e spesso esterna alla popolazione della val di Susa” (pp.176).

Altro caratterizzerebbe questo movimento, di fatto estremamente composito: “Apertura verso l’esterno, legame con altre realtà in lotta, accettazione della diversità interna e dialogo sembrano essere le chiavi vincenti che hanno fatto sì che il movimento No-Tav resista dai primi anni Novanta fino ad oggi” (pp.165). Lunghi anni in cui “territorio e natura” si sono rivelati potenziali pilastri su cui costruire una nuova identità che, nello stesso tempo, risulta sostanzialmente politica, in cui “il noi valsussino è un noi aperto e plurale” (pp.168). Da qui alle tematiche del bene comune il passo è breve e infatti l’autore, citando, tra i tanti, Settis, Gustavo Zagrebelsky, la commissione sui beni pubblici presieduta da Stefano Rodotà, evidenzia come il movimento No-Tav abbia “fatto della tutela del territorio, concepito come bene comune, il nucleo della sua azione, soprattutto proiettando tale difesa in una dimensione futura, a difesa di chi verrà” (pp.254). Sostanzialmente “una concezione dell’ambiente e del territorio intesi come beni comuni e non come zone private, valutabili solo in termini di mercato” (pp.256); ovvero, come ancora ricordano Della Porta e Piazza, mobilitazioni che “invece di essere classificate sotto la sindrome Nimby, andrebbero considerate esercizio di cittadinanza attiva, un’espressione di resistenza a progetti di intervento sul territorio che spesso travestono da bene comune interessi particolari” (pp.242).

Aime conclude la sua ricerca rimarcando come il movimento No-Tav, al di là della rappresentazione davvero terrificante che viene proposta dai media, simboleggi, da un lato, un contrappeso ad interessi economici che  sistematicamente prendono il sopravvento sulla politica; e dall’altro, l’espressione di un disagio ormai diffuso “nei confronti di un modello economico sempre più dominato da interessi ristretti, da una sempre minore redistribuzione e da un sempre maggiore attacco all’ambiente” (pp.290).

Edizione esaminata e brevi note

Marco Aime,  (Torino, 1956) insegna Antropologia culturale presso l’Università di Genova. Ha condotto ricerche sulle Alpi e in Africa occidentale. Tra le sue pubblicazioni più recenti: Timbuctu (2008); La macchia della razza (2012), Una bella di­ erenza (2009), Verdi tribù del Nord (2012), Cultura (2013), Etnografia del quotidiano (2014), Senza sponda (2015).

Marco Aime, “Fuori dal tunnel. Viaggio antropologico nella Val di Susa”, Meltemi (collana “biblioteca/antropologia”), Roma 2016, pp. 297.

Luca Menichetti. Lankenauta, dicembre 2018