Viel Omar

Fulgore della notte

Pubblicato il: 31 Dicembre 2019

Quanto leggiamo, a presentazione di “Fulgore della notte”, del “generoso tributo al Romanticismo inglese, che invita a lasciar andare gli ormeggi della ragione per abbandonarsi al dominio del possibile”, vuole significare qualcosa di più rispetto la constatazione di una “generosità” di citazioni; e qualcosa di più anche rispetto le passioni intellettuali descritte dai protagonisti del romanzo, Gordon Wilson per primo. In altri termini è evidente che Keats, Shelley, William Blake, Byron, non sono tirati in ballo semplicemente per confortare una prosa ambiziosa o per meglio rappresentare una famiglia un po’ bizzarra e quindi appassionata di scrittori che hanno anticipato la figura del “poète maudit”. Nel romanzo di Omar Viel è proprio la struttura, il registro dominante che intreccia incessantemente immaginazione e possibile realtà; sotto un certo profilo innestando, in contesto contemporaneo, l’idea del viaggio iniziatico nonché autentiche magie, occultate da pratiche illusionistiche, con temi propri del romanticismo inglese: “Dopotutto, la deriva nel fantastico faceva parte della sua natura o, più probabilmente, dello spirito universale che l’abitava” (pp.44). È il professor Gordon Wilson che riflette sul suo recente passato e sulle prime frequentazioni con Una, la donna che è diventata sua moglie e madre delle sue due figlie, e che ha voluto abbandonare a seguito di un prodigioso incidente. Credendo di avere a che fare con un’altra emanazione corporea della consorte, è infatti entrato in una casa riccamente affrescata (“le figure sul soffitto ci stanno guardando”), ma, trasognato, sembra aver provocato un incendio. E così “gli animali si dispersero” (tigre compresa) e “il soffitto si svuotò”. “Sembra” perché l’epilogo del racconto suggerisce che i fatti si siano svolti in maniera diversa, prefigurando una sorta di colpo di scena tra le righe, nemmeno troppo sbandierato. Ma tutto rimane appunto nel campo del possibile proprio in virtù di questo predominio dell’immaginazione che ci conduce in un limbo situato tra mondo visibile e mondo invisibile. Ne consegue la ricerca di Gordon, un “protagonista inconsapevole”, da parte della figlia Liz: un viaggio che soltanto nella dimensione reale e più consueta è circoscritto al percorso da Bristol a Londra, ma che significa ben altro e rivela, grazie anche alle corrispondenze tra familiari (dal piccione viaggiatore al più consueto blog), quali siano stati i talenti magici della giovanissima Una – nome che già allude a chi sa trascendere dualismi e contrapposizioni – e i misteri che hanno accompagnato la nascita della famiglia. In altre parole una sorta di viaggio iniziatico tutt’altro che lineare, e in cui quello che sembra sogno forse non è tale: “avvolta in preziose spirali di conoscenza perenne, vibrante, sembrava dirle che ogni caso scivola via senza mai disperdersi del tutto, che l’immaginazione diventa materia e la materia ritorna immaginazione” (pp.191).

Una sorta di percorso circolare che ritroviamo nell’organizzazione del racconto; ovvero un susseguirsi non lineare di punti di vista, rappresentati da scambi epistolari, dal diegetico che si combina col flusso di coscienza, passato e presente divisi da un confine impalpabile, e, nonostante questa fluidità apparentemente caotica di personaggi e di circostanze singolari – ecco uno degli aspetti più apprezzabili – tutto rimane su un piano di eleganza formale. Si manifesta fluida, come si suol dire di questi tempi, anche la sessualità delle due sorelle musiciste: elemento tutt’altro che morboso, semmai ancora espressione del possibile, visti gli incontri tra corpi tangibili e corpi eterei, probabilmente intangibili (o quasi). L’immaginazione così interpretata e, possiamo dirlo, materializzata, diventa così il fondamento di un racconto tutto giocato, dalla prima all’ultima pagina, su atmosfere surreali e misteriose, su riferimenti, neppure troppo espliciti, alla bilocazione, all’escapologia, e, per fare un esempio, alle doti stupefacenti di una madre capace di smaterializzarsi come “una folata di vento”; senza dimenticare situazioni tipo un concerto di Jimi Hendrix ai giorni nostri: “Se la Storia sostiene che sia morto, la Verità risponde che non lo è abbastanza” (pp.147).

Il richiamo ad un romanticismo visionario, in presenza di realtà parallele e conosciute a pochi privilegiati, non appare perciò una forzatura; basti pensare alle parole di Nadia Fusini su Keats, uno degli autori di riferimento della famiglia Wilson: “Il mondo dell’Immagine è per Keats un terzo mondo – altrettanto reale ontologicamente che il mondo dei sensi, o dell’intelletto puro. Più immateriale del primo, meno immateriale del secondo, questo mondo al di là del mondo richiede una facoltà sua propria per essere percepito: l’immaginazione (organo da non confondersi con la fantasia)”. Come infatti si può cogliere dalle stesse parole del  poeta londinese, uno degli spiriti guida presenti nel “Fulgore” di Viel, di sicuro non soltanto in veste di citazioni:  “Io non sono sicuro di niente, se non della Santità degli affetti del Cuore, e della verità dell’Immaginazione” – Keats, Lettere a Benjamin Baiely, 22 novembre 1817” (pp.201).

Edizione esaminata e brevi note

Omar Viel, ha studiato Conservazione dei Beni Culturali e si occupa di comunicazione in diversi ambiti, tra cui quello artistico. Ha pubblicato racconti su Nuova Prosa e nell’antologia Venise, collection Bouquins, dell’editore francese Robert Laffont. È stato finalista della VI edizione del Premio Italo Calvino.

Omar Viel, “Fulgore della notte”, Adiaphora, Verona 2019, pp. 212.

Luca Menichetti. Lankenauta, dicembre 2019