Montanelli Indro

Senza voce

Pubblicato il: 1 Ottobre 2006

“Noi volevamo fare, da uomini di destra, il quotidiano di una destra veramente liberale che si sente oltraggiata dall’abuso che ne fanno gli attuali contraffattori”: era l’aprile del 1995 e così scriveva Indro Montanelli nell’ultimo editoriale del quotidiano “La Voce”.
Poche righe che ben sintetizzano l’anomala avventura editoriale del quotidiano: De Bortoli, l’autore della prefazione, ci ricorda come quei pochi mesi che videro “La Voce” nelle edicole, furono l’ulteriore dimostrazione della difficoltà, se non dell’impossibilità di fare in Italia un giornale senza un padrino o un patrono.
Montanelli aveva lasciato da poco la direzione del Giornale e con lui alcuni dei suoi più stretti collaboratori come Bacialli e Federico Orlando; anche Mario Cervi lo seguì, più per amicizia personale che per altro, visto il suo convinto sostegno alla causa berlusconiana (di lì a poco fece dietro front con la prospettiva di dirigere il quotidiano di Paolo alias Silvio B.).
Non è questa la sede per ripercorrere le fasi di un divorzio che ancora fa discutere, quello tra il decano dei giornalisti e il Berlusconi editore e neo politico-salvatore della Patria: prendiamo atto che l’Indro nazionale da subito non gradì la “discesa in campo” del Cavaliere; come giornalista che non voleva diventare portavoce di un capo partito, ma soprattutto come italiano, di un’Italia che non era certo quella degli anni ’90. E forse di un’Italia che non era mai esistita.
“Il Montanelli de “La Voce” fu trattato come un pericoloso oppositore, quasi come un neocomunista. In realtà non smise mai, nemmeno un attimo di essere un conservatore. Libero però”: anche qui De Bortoli coglie perfettamente il paradosso che aveva caratterizzato gli ultimi anni di vita del giornalista.
Nel vuoto di potere lasciato a seguito di tangentopoli e prontamente riempito dal Cavaliere, anche chi non si allineava con le truppe sinistrorse ma rifiutava di accodarsi al disegno berlusconiano (e soprattutto all’uso spregiudicato dei media che veniva fatto) rischiava di venire tacciato di comunismo o di essere considerato un utile idiota succube dei neo-bolscevichi del compagno Occhetto e della sua leggendaria “gioiosa macchina da guerra”.

Così capitò anche a Montanelli, reo di non partecipare al fronte comune contro il rinnovato pericolo rosso; in una sorta di ritorno al futuro, della serie il 1994 come il 1948.
La verità è che il giornalista toscano, vuoi per l’assenza di un incombente pericolo sovietico, vuoi per una forma di galateo politico molto british (per i suoi detrattori a causa del suo rancore verso l’ex editore) così si esprimeva: ” Non c’è bisogno quindi per rifiutare la sinistra di mobilitare i fantasmi del passato. Basta il presente. Allora la destra? Io di destre non ne vedo. Vedo soltanto un papocchio e tre duci (tra i quali non si sa chi scalerà per primo il balcone: certamente il peggiore)… per le due uninominali, cioè per la scelta delle persone punterò sulle più innocue. Come riconoscerle? Semplicissimo: quelle che parlano a voce più bassa e promettono di meno. E poi mi pentirò”. Giudizi che sono da meglio considerare alla luce di successive ed inevitabili polemiche tra il conservatore Montanelli ed esponenti di una sinistra politica e culturale egemonizzata da esponenti dell’ex partito comunista.
Al tempo della Voce, sia per la linea corsara del giornale, che esplicitamente non disdegnava di rivolgersi anche a coloro che simpatizzavano per una sinistra riformista e non massimalista, sia perché in quel momento il principale pericolo era considerato quella sorta di democrazia mediatica (peronista per i più maligni) che tanto affascinava gli italiani, Montanelli forse non appariva più lo stesso di quando dirigeva il Giornale, in trincea, solitario in un’Italia di personaggi ideologicamente molto disinvolti, l’unico giornalista di fama che azzardava tenere fermo il verbo liberalconservatore.
Un “verbo” diversamente interpretato dai suoi stessi collaboratori visto che la redazione, al momento della rottura con l’editore, in maggioranza lo abbandonò e fu ben lieta di rimanere al servizio di Paolo-Sivio B.
Pensiamo, fra i tanti, a Guido Paglia, Arturo Diaconale, Livio Caputo (poi parlamentare di F.I).
Agli antipodi il percorso di un Federico Orlando, che pure ricordo al tempo del Giornale uno degli anticomunisti più radicali, a volte fuori misura, che, alla “discesa in campo” del Cavaliere, si definì da sempre “liberale di sinistra” (prima di allora il sospetto che lo fosse non mi aveva mai sfiorato), poi acceso ulivista prodiano (da quanto ho potuto cogliere questo suo impegno politico diretto nelle liste del centro sinistra – candidatura “tecnica” con i Verdi – non pare sia stato troppo apprezzato dall’ormai ex direttore della “Voce”).
Di tutte queste vicissitudini e contorcimenti umani e politici in “Senza Voce”, quale selezione degli articoli più significativi firmati Montanelli ed apparsi tra il 22 marzo 1994 e il 12 aprile 1995, troviamo poche tracce; il vecchio Cilindro, al di là dei contenuti, apprezzabili o meno a seconda del proprio credo ideologico, qui lo leggiamo, piuttosto, impegnato a fustigare i costumi esotici degli italiani e dei loro rappresentanti politici.
A fronte dei nuovi “statisti”, il nostro torna, con le sue inimitabili zampate, a marcare l’abisso che li distingue da un De Gasperi, straniero in patria e soprattutto nel suo partito, ammorbato dai “professorini” come Fanfani, Dossetti, La Pira (” Mai De Gasperi fu tanto incensato dagli “amici” come lo fu nel momento in cui gli strappavano di mano la segreteria del partito… A lui importava solo lo Stato. Mentre a loro – n.d.r. “i professorini” – cresciuti e covati sotto la gonnella del parroco, dello Stato non solo ne ignoravano la cultura me ne covavano l’odio. Per loro c’era solo il partito”); ma lo stesso Togliatti (“era più un golpista che un rivoluzionario. Disprezzava la piazza, non ne possedeva neppure il linguaggio”).
Inevitabili quelle affermazioni apparentemente provocatorie che potrebbero irritare i lettori politicamente più ortodossi: è noto come certa vulgata politically correct abbia fatto di Montanelli la quint’essenza del reazionario cripto fascista, e neanche troppo cripto.
Una considerazione di pericoloso destrorso che nel periodo della “Voce” fu in parte accantonata per rivalutarlo come geniale esponente di quella “destra perbene e democratica” che in Italia proprio non si sapeva dove fosse (e perciò del tutto innocua).
Atteggiamento chiaramente strumentale, incentivato da qualche ingenuità di cui lo stesso Montanelli fu consapevole: ricordiamo quando fu invitato al festival dell’Unità, il giornalista accettò pensando di andare incontro a scontate, e per lui goduriose, contestazioni ed invece fu applaudito come un “compagno”, malgrado avesse detto chiaramente cosa pensava dei comunisti e dei loro eredi.
Un qualcosa di paradossale se pensiamo che poco tempo prima, in quel di Cortina – se rammento bene – fu imbastito una sorta di processo al giornalista.
Quella che doveva essere una goliardata ed una celebrazione, divenne, con il contributo dei “pubblici ministeri” e padroni di casa Miriam Mafai e Corrado Augias, se non un vero e proprio linciaggio, sicuramente una astiosa requisitoria nei confronti del Montanelli anticomunista viscerale, estraneo ai salotti radical-chic: imputazione e seguente “condanna” per essere stato un uomo prono al potere dei governi.
Laconico il commento del “condannato”: “non sono proprio cambiati.…”.
Pochi mesi dopo la “discesa in campo” di Berlusconi; e sappiamo com’è andata a finire.
Sulla scorta della storia personale e della carriera dal giornalista, una “sentenza” forse non particolarmente lungimirante.
Altra musica quando, uccisa La Voce, il vecchio Indro tornò al Corriere, grazie ai buoni uffici di Paolo Mieli, e dove, dalle colonne della sua “Stanza”, la retorica resistenziale, la politica estera ambigua ed accomodante del quarantennio democristiano, i vizi italici, la borghesia pavida e geneticamente predisposta al manganello, la destra che non legittimava una sinistra democratica, la sinistra che non legittimava una destra democratica, gli abomini di una storiografia ideologizzata e bugiarda, continuarono ad essere oggetto dei suoi strali.
Certi entusiasmi da sinistra si erano già raffreddati, nonostante la perenne polemica con Berlusconi ed i suoi adepti clonati che Indro Montanelli non aveva mai smesso di considerare l’antitesi vivente e ridens di quella “destra storica” e risorgimentale di cui si sentiva orfano.
Negli articoli di “Senza Voce” si coglie bene quanto, per un pessimista cronico come lui, il più degno rappresentante degli “apoti”, nel più puro stile prezzoliniano, questa “destra” fosse in realtà un qualcosa di utopico, impossibile che si potesse affermare in un paese come l’Italia, dove il rigore, il rispetto per l’avversario, la sobrietà, il senso dello Stato non sono di casa.
Alcuni dei titoli (di per sé molto eloquenti): “Di scena i mostri”, “Al tempo del Chianti e del Barolo” (“Quando Bettino Ricasoli fu chiamato a succedere a Cavour come presidente del Consiglio, ordinò al suo giornale “La Nazione” di bandire la parola “Chianti”, del cui vino era un produttore. E per restare fra botti e bottiglie, ricordiamoci che Einaudi fece qualcosa di analogo col suo Barolo bandendo quello delle sue cantine dei pranzi ufficiali del Quirinale”), “Il giudice e la piazza”, “Speravo in Baggio contro Di Pietro”, “Con le Pivetti nel sacco”, “Cinquant’anni dopo” (“La Liberazione è un evento che dovrebbe essere scolpito a caratteri d’oro nella memoria degli italiani. E come tale credo che tutti sarebbero disposti a riviverlo. Ma a un patto: che non fornisca pretesto ad una delle solite orge resitenzialiste che ci affliggono da mezzo secolo….ci esporremo ancora una volta al disprezzo e al sarcasmo dei veri liberatori; ma provocheremmo nella gente comune e specialmente nei giovani una crisi di rigetto che andrà a tutto vantaggio delle forze politiche escluse, per la loro origini o mancanza di origine, dalla retorica e dai rituali resistenzialisti”), “Uno straniero in Italia”, “Caro Tonino lascia stare la “gente” (“Di Pietro dice di sentirci con la “gente” che rappresenta la vera maggioranza….Temo che legga poco e con poca attenzione i giornali…Polemizzare col campione di Mani pulite è la cosa che meno ci gratifica….purtroppo perché siamo sicuri che il Di Pietro politico ci farà rimpiangere il Di Pietro magistrato”).

Questi i capitoli, anch’essi eloquenti, che, a grandi linee, raccolgono gli articoli per argomenti e non secondo una stretta cronologia: “Uomini e no”, “Un uomo solo al comando”, “Delitto e castigo”, “Corsa al balcone”, “Con le attenne dritte”, “Seconda repubblica. Quarto potere”, “Cronache di Babilonia”, “I perdenti e i deficienti”, “Interviste immaginarie”.
Un uomo sicuramente pieno di contraddizioni, un mangiapreti anticlericale ma alieno da settarismi e sincero ammiratore di uomini di fede, polemico quanto mai ma capace di atti di grande generosità nei confronti degli avversari, e soprattutto bastian contrario di professione.
Tutto questo nel volume della Rizzoli e soprattutto nelle “interviste impossibili”:
qui viene fuori quello stile limpido, diretto, che, al di là delle sue prese di posizione, irritanti per molti suoi antagonisti di sinistra (ed ora anche di destra), ne ha fatto “il più grande giornalista italiano del dopoguerra”.
Giudizio che, tanto più dopo la lettura di questa raccolta postuma, è difficile contestare.

 

“L’utopia di un giornale libero e insieme forte, l’ambizione di un giornale fenomeno. Un anno vissuto spregiudicatamente e perciò capace di suscitare forti passioni.
Amori intensi, odi feroci che ancora durano. E amici coraggiosi e nemici spietati”
(dalla postfazione di Vittorio Corona).

Edizione esaminata e brevi note

Indro Montanelli – “Senza Voce” – B.U.R. “Saggi” – Rizzoli – euro 9,80.

Già pubblicato su ciao.it il 20 gennaio 2006

Luca Menichetti. Lankelot.eu ottobre 2006