Caselli Gian Carlo

Le due guerre. Perché l’Italia ha sconfitto il terrorismo e non la mafia

Pubblicato il: 28 Luglio 2012

Se l’intento di Gian Carlo Caselli fosse stato soltanto quello di rispondere alla domanda del titolo “Perché l’Italia ha sconfitto il terrorismo e non la mafia” allora forse non c’era bisogno di scrivere un intero libro. Bastava ricordare l’adagio montanelliano “mafia non mangia mafia”. Il libro, edito nel 2009 e ideale premessa al più recente “Assalto alla giustizia”, rappresenta qualcosa di più, una sorta di biografia professionale: a partire dal 1974 (“la mia vita  – e quella della mia famiglia – cambia quel giorno di maggio del 1974”), anno nel quale Caselli divenne “il giudice istruttore delle Brigate Rosse”, fino ai giorni nostri, quelli di Mangano “eroe” e della strategia mafiosa della sommersione. Con uno stile secco, conciso, lontanissimo dal burocratese che da magistrato è sicuramente costretto ad usare, Caselli ci racconta innanzitutto i momenti salienti della lotta al terrorismo delle BR e di Prima Linea, tutte le crudeltà e le follie ideologiche di un folto gruppo di criminali che negli anni settanta hanno proliferato sia grazie alla distrazione delle forze politiche, sia grazie a coloro che negavano a priori la sola ipotesi di un terrorismo di sinistra; oppure non avevano alcuna vergogna ad uscirsene con frasi tipo”né con lo Stato, né con le BR”.

E’ la storia vista da vicino del processo ai capi storici del terrorismo, del pentimento di Patrizio Peci, degli omicidi del giudice Coco, di Guido Rossa e di tanti altri onesti, oggi dimenticati, travolti dall’idiozia sanguinaria di criminali travestiti da rivoluzionari. Ed è anche il racconto di un metodo, inaugurato proprio in quegli anni dal capo dell’Ufficio istruzione di Torino Mario Carassi e dai carabinieri del generale Dalla Chiesa, basato su criteri di centralizzazione e di specializzazione, che ha permesso di sconfiggere l’ala armata del terrorismo e nel contempo ha contribuito a diffondere il valore della legalità e la percezione di cosa erano veramente le Br: non dei generosi rivoluzionari in lotta contro uno stato repressivo ma un fenomeno criminale che si stordiva di ideologia e di sangue. La guerra contro la violenza brigatista è stata vinta anche grazie alla mobilitazione dei partiti e della sinistra parlamentare: Caselli racconta l’impegno di Diego Novelli, di Aldo Viglione, il sacrificio di Guido Rossa, operaio e sindacalista della CGIL e di altri coraggiosi servitori dello Stato. Ricordiamo che magistrato torinese, uomo culturalmente di sinistra ma, con buona pace dei suoi tanti detrattori, non certo militante di partito, non ha avuto remore ad arrestare Giambattista Lazagna, già noto partigiano, così attirandosi gli strali della sinistra extraparlamentare e non solo. Il tempo non ha ammorbidito la sua inflessibilità e lo riconosciamo pienamente quando, nel ricordare l’arroganza di Mario Moretti e degli ex brigatisti che sostengono tutt’al più di aver sbagliato tempi e modalità di azione ma di aver perseguito obiettivi giusti, così conclude: “è una perdita di memoria che sconfina nell’amnesia, o meglio, in una strumentale quanto falsa ricostruzione dei fatti, volta ad autoassolversi dalle gravi responsabilità di scelte criminali che hanno macabramente usurpato istanze di lotta operaia. Un’usurpazione che ha riguardato irrimediabilmente anche l’antifascismo e la Resistenza, valori di cui il terrorismo rosso arbitrariamente ha tentato di impadronirsi, aprendo la strada al revisionismo oggi dilagante” (pag. 123).

E poi l’altra guerra, quella contro la mafia. All’indomani delle bombe del 1992 Caselli, per scelta personale, si trova in prima linea in quel di Palermo a contrastare la strategia sanguinaria delle cosche e, salvo l’apparente consenso iniziale alla sua azione contro l’ala stragista, la Procura da lui diretta presto inizierà a subire una costante delegittimazione. Chi ricorda i primi anni novanta sa che scrivere “in guerra” non è affatto una esagerazione: “A difesa della mia abitazione c’erano militari armati al piano terra e militari armati sul pianerottolo. Uscendo dall’ascensore (che non faceva fermate intermedie) ci si trovava di fronte una vera e propria trincea: filo spinato, sacchetti di sabbia, un soldato in tuta mimetica con tanto di elmetto e mitra con pallottola in canna, ventiquattr’ore su ventiquattro. L’alloggio aveva porte e finestre super-blindate, praticamente sempre chiuse, dal momento che aprirle era sconsigliato, e comunque richiedeva una gran fatica. Soltanto uno spiraglio, talvolta, per vedere le luci di Palermo di notte, almeno da lontano e dall’alto”.

I PM proseguirono l’opera di Falcone e Borsellino nello scoperchiare la fogna dei rapporti tra criminalità organizzata e colletti bianchi, ma, com’era prevedibile, i miasmi investirono in pieno coloro che non volevano guardare in faccia nessuno: da qui le mistificazioni mediatiche che hanno trasformato le sentenze di non doversi procedere per prescrizione del reato in assoluzioni con formula piena, oppure le ipotesi accusatorie basate su solidi riscontri oggettivi alla condizione di teorema ideologico di giudici politicizzati. L’opera ormai decennale di certi scherani travestiti da giornalisti è nota e quindi non è necessario soffermarsi su gente come Jannuzzi o Ferrara. Nel suo libro si ricordano le infamie subite dai magistrati intenti ad indagare in ogni direzione: sia stato o meno il timore che venisse scoperchiato quel livello inconfessato di relazioni tra cosche e pezzi dello Stato, è un dato di fatto che i partiti e l’informazione asservita si son messi di traverso alle indagini – impossibile dimenticare l’emendamento Bobbio “contra personam” al fine di bloccare la carriera  di Caselli – in un modo che sembra proprio speculare alla compattezza delle forze politiche esistente al tempo del terrorismo rosso. Allora quegli stessi partiti si sentivano minacciati da criminali che attentavano alla democrazia. Con la cosiddetta “seconda repubblica” gli uomini dei partiti, molti dei quali rinnovati nel nome ma pieni di riciclati, superata la stagione stragista, non apparivano poi tanto intenzionati a combattere una guerra contro le cosche ora intente a fare affari e a proliferare con quello spirito di buon vicinato che spesso vuol dire voto di scambio, appalti, spartizioni e tutto il repertorio del mafioso per bene. Esattamente come nel più recente “Assalto alla giustizia, si colgono le frequenti contestazioni subite da Caselli nel corso della sua lunga carriera di PM: da sinistra quando indagava e incarcerava uomini considerati puri e sinceri rivoluzionari; da destra quando indagava e incarcerava uomini legati al potere mafioso, vuoi perché pinciuti, vuoi perché in affari con i boss. Il libro è uscito nel 2009 e quindi non vi possiamo leggere la testimonianza degli insulti sanguinosi ricevuti da parte di quei No Tav che non hanno ben chiara la differenza tra la legittima (e a mio avviso assolutamente necessaria) contestazione di un’opera devastante in ogni senso, e il rispetto della legalità, malgrado la presenza di interessi miliardari, partiti e imprenditori ingolositi da un pozzo di soldi senza fine a carico dello Stato, faccia capire che in questo caso l’illegalità non si limiti soltanto ai violenti che si esercitano contro la polizia.

I drammatici avvenimenti raccontati nel libro, anche se spesso conosciuti soltanto nelle loro linee essenziali o nella versione taroccata di certi organi di informazione, non rappresentano la cronaca distaccata di un giornalista o di uno storico, ma ricordi personali e quindi si arricchiscono di dettagli in gran parte inediti. L’intransigenza di Caselli, l’atteggiamento che negli anni lo ha reso inviso sia a destra che a sinistra, viene più volte spiegata con riferimento ai principi consacrati nell’art.3 della Costituzione (obiettivi di eguaglianza formale e sostanziale): il magistrato, svolgendo le sue funzioni soggetto solo e soltanto alla Legge, non deve curarsi delle polemiche, delle reazioni politiche che possono derivare dalla sua azione; e soprattutto non deve pensare ad una giustizia a due velocità, forte con i deboli e debole con i forti. Come “Assalto alla giustizia”, anche “Le due guerre” rappresenta una intransigente ed appassionata rivendicazione di autonomia e indipendenza della propria funzione di magistrato, testimoniata oltretutto dalle proficue collaborazioni con colleghi di estrazione culturale e politica molto diversa dalla sua.

La domanda iniziale, perché la seconda guerra, quella contro la Mafia, sia ancora in corso, ha una risposta scontata. Ma è giusto ricordare ancora una volta le parole di Caselli, che quanto meno non le manda a dire: “Finché indaghi su Riina vai bene. Ma quando passi a occuparti (facendo il tuo dovere) anche di imputati “eccellenti”, cominciano i guai. Qualcuno ti mette i bastoni fra le ruote. Preferisce − ribadisco − perdere una guerra che si poteva vincere pur di evitare che si accertino le responsabilità del “terzo livello”. La guerra alla mafia, insomma, si inceppa quando si sfonda il cordone sanitario delle relazioni esterne. Allora non sei più un magistrato che fa il suo dovere, ma un oltranzista giacobino, un estremista militante, un giustizialista, una toga rossa”.

Edizione esaminata e brevi note

Gian Carlo Caselli (Alessandria, 1939), magistrato. Dopo aver ricoperto il ruolo di procuratore generale presso la Corte d’Appello di Torino, è ora procuratore capo. Ha cominciato la sua carriera in magistratura a Torino, come giudice istruttore impegnato in indagini sul terrorismo, in particolare sulle Brigate rosse. Dal 1986 al 1990 è stato membro del Consiglio superiore della magistratura. Ha diretto la Procura di Palermo dal 1993 al 1999, gli anni dei processi “eccellenti” su mafia e politica. Dal 1999 al 2001 ha diretto il Dap (Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria) e in seguito per due anni è stato il rappresentante italiano presso Eurojust. Tra i suoi libri: L’eredità scomoda, con Antonio Ingroia (2001), A un cittadino che non crede nella giustizia, con Livio Pepino (2005), Un magistrato fuori legge (2005), Di sana e robusta Costituzione, con Oscar Luigi Scalfaro (2010), Assalto alla Giustizia (2011), Corretti e corrotti, con Marco Alloni (2012).

Gian Carlo Caselli, Le due guerre. Perché l’Italia ha sconfitto il terrorismo e non la mafia, Melampo, Milano 2009, pag. 157

Luca Menichetti. Lankelot, luglio 2012

Recensione già pubblicata il 28 luglio 2012 su ciao.it e qui parzialmente modificata.