Mugno Salvatore

Una toga amara. Giangiacomo Ciaccio Montalto, la tenacia e la solitudine di un magistrato scomodo

Pubblicato il: 6 Febbraio 2013

Ci sono alcune parole ricorrenti, usate ogni qual volta si parla e si scrive delle vittime di mafia, magistrati su tutti: solitudine, isolamento. Ormai conosciamo gli ostracismi ai quali furono sottoposti Falcone e Borsellino, mentre avevamo una conoscenza molto parziale delle vicende che videro protagonista  il pubblico ministero Giangiacomo Ciaccio Montalto, fino a quel tragico 25 gennaio 1983 quando fu ucciso in un agguato mafioso. A colmare questa lacuna c’ha pensato Salvatore Mugno col suo libro “Una toga amara”.

Giangiacomo Ciaccio Montalto ci viene raccontato nei suoi aspetti più personali, ovvero la famiglia, i suoi interessi, la musica (fu anche critico per il quotidiano di Trapani), la letteratura, i viaggi, la navigazione e innumerevoli altri; ma, oltre a cogliere i problemi familiari  scaturiti poco prima della morte (anche qui una forma di solitudine) è proprio nel leggere la storia delle sue inchieste, a partire cosiddetto processo del volantino (1971), passando dal “mostro di Marsala” (1971), per giungere alle indagini sul giudice e collega Antonio Costa (1983), che si rende conto di quell’isolamento che poi rappresenterà il terreno più fertile per il suo assassinio.

Fin dall’inchiesta del cosiddetto “sacco del Belice” (1978), a fronte di imputati prontamente rimessi in libertà, Giangiacomo Ciaccio Montalto, sostituto procuratore della Repubblica di Trapani, ebbe a dire: “Adesso c’è il rischio di inquinamento delle prove. I tre ultimi liberati erano in carcere da poco tempo. Di solito un ladro di polli ci resta molto di più. Ed io come cittadino posso dire che ci sono imputati privilegiati per ragioni economiche e collegamenti col potere politico e imputati qualsiasi” (pag. 51). E difatti, con una motivazione che ancora grida vendetta, la Corte d’Appello di Palermo decise quella scarcerazione tanto contestata a causa “dell’apprezzabile livello sociale degli imputati”. Ciaccio Montalto già da questo fallito tentativo di scardinare il sistema siciliano di omertà e affarismo, si capisce come si sia meritato il titolo di “magistrato scomodo”. Intendiamoci: fermezza e tenacia che non voleva dire insensibilità o atteggiamenti da compiaciuto Torquemada. Salvatore Mugno, tre le altre cose, ci ricorda quanto si sia speso in favore di Peppino Pes, “l’ergastolano buono”.

Il suo essere “scomodo” inoltre ci viene confermato dal suo metodo investigativo: Mugno ci ricorda come sia stato un precursore delle indagini bancarie (si veda il cosiddetto scandalo petroli) e di indagini con tecniche innovative, sulla scorta dell’intuizione, avvenuta ben prima delle rivelazioni di Buscetta, che  mafia fosse un’entità unitaria. Ma soprattutto rimane la solitudine e l’isolamento del magistrato il leit motiv presente dalla prima all’ultima pagina. Per capire il clima basta leggere quanto disse il ministro di Grazia e Giustizia del tempo, Clelio Darida, ad un convegno organizzato dall’Associazione Nazionale Magistrati: “Credere che la mafia si possa debellare del tutto è forse un’illusione. Tutt’al più si può riportare entro certi limiti fisiologici”. Sarà stato pure esercizio di realismo e magari neppure qualcosa di troppo simile a quanto pronunciato anni dopo dal ministro Lunardi (“con mafia e camorra bisogna convivere e i problemi di criminalità ognuno li risolva come vuole”), ma all’indomani dell’omicidio Montalto, tanto più se si aggiungeva che “lo Stato e il governo hanno fatto tutto quello che c’era da fare”, è inevitabile pensare a sottovalutazione e disinteresse per un fenomeno criminale che si stava evolvendo in una realtà stragista. La constatazione di essere rimasto solo, lavorando in una procura che non gli mostrava solidarietà, e avendo a che fare con colleghi quanto meno abulici, lo convinse a chiedere ed ottenere il trasferimento in Toscana (“me ne vado da questa città senza rimpianti, non lascio un solo amico”). Non fece in tempo e il 25 gennaio del 1983, davanti alla sua casa di Valderice, la mafia fece il suo sporco lavoro. Le indagini per individuare i mandanti e gli esecutori furono complicate, e puntualmente nelle ultime pagine di “Una toga amara” possiamo leggere una sintesi che ripercorre ben venti anni di dibattimenti giudiziari. Tra depistaggi, dubbi ancora aperti, ovvero tutto quel repertorio che appare ogni volta ci sia di mezzo Cosa Nostra e omicidi eccellenti, si è finalmente giunti ad una conclusione:  se inizialmente furono accusati dell’omicidio il boss trapanese Totò Minore e i suoi scherani, dopo che questi furono eliminati dal Clan dei Corleonesi, il responsabile fu individuato in Totò Riina. Evidentemente in quel 1983, quando la Commissione era costituita da capi mandamento fedeli al boss di Corleone,  la mafia ritenne che il magistrato poteva creare ulteriori fastidi: già era stato emesso un mandato di cattura nei confronti di Giacomo Riina, e per di più nella Toscana, dove Ciaccio Montalto stava per essere trasferito, “lo zio del boss aveva forti interessi economici e criminali”.

Il volume si chiude con un ricordo personale del medico Benedetto Mirto e, anche se non presenti nel libro e contenute in un articolo di Rino Giacalone, possiamo concludere proprio con le parole di questo suo amico: “Ulisse era il mito di Ciaccio Montalto, ma a lui non è riuscito ciò che riuscì a Ulisse, battere i proci e riconquistare la sua Itaca. Il compito oggi è di altri dentro e fuori i Palazzi di Giustizia. Governo e parlamento permettendo, riconoscendo come eroe davvero chi lo merita e chi lo fu e non mafiosi e corrotti”. Ogni riferimento è chiaramente voluto.

Edizione esaminata e brevi note

Salvatore Mugno (Trapani, 1962), ha collaborato col «Giornale di Sicilia» e con periodici trapanesi («Lo Scarabeo», «Graphiti», «La Fardelliana»). Scrive per «La Sicilia». Insegna discipline giuridiche ed economiche negli istituti superiori. Ha pubblicato un volume di racconti (In ogni buco della città, 1999) e quattro romanzi (Opere terminali, 2001; Il biografo di Nick La Rocca, 2005; Il pollice in bocca, 2005; Di traverso nella gola del mondo, 2010. Ha, inoltre, curato e introdotto la prima edizione italiana de I canti della vita (2008), il capolavoro del maggiore poeta tunisino del Novecento, Abu’l Qasim ash-Shabbi (1909-1934) e Lettere a Svetonio di Matteo Messina Denaro (2008). Tra i suoi lavori più recenti: Peppe Nappa. Maschera e caratteri storici dei siciliani (2010).

Salvatore Mugno, Una toga amara. Giangiacomo Ciaccio Montalto, la tenacia e la solitudine di un magistrato scomodo, Di Girolamo Editore, Trapani 2013, pag. 175

Luca Menichetti. Lankelot, febbraio 2013