Aprile Guglielmo

Il talento dell’equilibrista

Pubblicato il: 26 Gennaio 2023

Qualcosa è avvenuto, Dio, così com’era apparso sulla scena della Storia, si è dissolto, il senso dell’esistenza pare perso, ogni orizzonte valoriale è collassato, saltato ogni punto di riferimento, l’umanità si aggira con sguardo plumbeo e perduto fra le macerie dei secoli e non trova un nesso, il nichilismo ci torce le viscere, “il deserto cresce…”.

Con questa silloge dall’emblematico titolo de “Il talento dell’equilibrista”, edita nel 2018 da Ladolfi Editore, Guglielmo Aprile registra con lucidità i sintomi di questa crisi, ne fa materia di un canto sobrio ma spietato e si aggira fra i frantumi del pensiero contemporaneo, consapevolmente disincantato, scrivendo ciò che resta di un sogno durato millenni- il sogno che la vita abbia un senso, una direzione, uno scopo- : nulla, non rimane nulla, forse solo l’incubo che l’esistenza umana sia nient’altro che la vicenda malsana di una scoria destinata alla spazzatura e che tutto ciò che noi ci raccontiamo serva solo a mascherare questa scomoda verità.

La silloge è efficacemente strutturata intorno a poche idee, molto chiare, rese da immagini precise senza svolazzi lirici, con una scrittura impietosa, impetuosa ma controllata, essenziale e fredda, Guglielmo Aprile non mira a sedurre il lettore ma a svegliarlo dal suo sonno di abitudini che gli impediscono di vedere la povertà delle proprie esperienze. Ridotti a consumatori, a digitare codici, a fare snervanti file, a impersonare i burocrati e gli imprenditori di noi stessi, siamo solo cavie di un meccanismo tremendo che dalla culla ci trascina alla tomba. Il destino, dopo una vita passata a perpetuare cliché logori, è finire nel dimenticatoio del compostaggio. Lungi dall’essere opinione personale, questa è condizione storica, pensiero dell’epoca e sua profonda matrice. In ciò sta il coraggio di questo poeta che sembra davvero camminare sul filo, proprio come l’equilibrista del titolo, non per dare spettacolo di sé ma per avvertirci, anche con durezza, della nostra sorte umana. Basta illusioni, trionfi “l’arido vero”, si facciano finalmente i conti con la realtà, almeno con quella che la nostra epoca propone, configura e modella. Ridotti a zero da questa tragica consapevolezza, cosa resta della nostra, tanto narcisisticamente decantata, umanità? Siamo ormai mercificati in ogni fibra della nostra esistenza, dunque è normale fare la fine che fanno le merci. La ”liquidazione totale” incombe, infatti, con la sua scientifica, definitiva, tabula rasa.

Non c’è nulla di solido, nulla di duraturo, “anche le montagne il tempo le umilia”, tutto è transitorio, il poeta costata questo, lo denuncia, ne fa materia di un’investigazione che non fa sconti all’esistente, ne canta dolorosamente, e direi anche crudelmente, l’inesorabile impermanenza. Nella poesia Mondo perduto, emerge intensamente la nostalgia dell’infanzia, quando una semplice fabbrica di biscotti era un regno dove la fantasia infantile si perdeva e “il libro degli animali illustrati”, che il poeta sfogliava da bambino quando era ammalato, diventa simbolo di ciò che non è più e genera un doloroso rimpianto. Ed è uno dei momenti più intimi in una silloge in cui sono rare le concessioni elegiache. In versi definitivi come sentenze emerge la pochezza del nostro quotidiano vivere da fantasmi in attesa del nostro naturale annientamento:

“Il bidone dell’indifferenziata/trabocca ogni giorno di più/ di cartoline della luna di miele”.

Come sintetizza Giuliano Ladolfi nell’introduzione: ”L’uomo contemporaneo non ha superato la condizione del protagonista dei romanzi di Franz Kafka[…]Di fronte a lui non è rimasto che l’assurdo della condizione umana.”

L’anonimato s’impossessa delle persone ma anche dei luoghi:

“Ogni sera la stessa stazione anonima[…]”.

La vita che viviamo è una mistificazione futile: la faccia che ci costruiamo anno dopo anno “assume i connotati/ di un gigantesco errore irreparabile.”
Tutto scorre inesorabilmente ma a mostrarlo non è più il fiume eracliteo ma un più banale rubinetto, il poeta non ha per fratelli che ”i lampioni impassibili”, le strade sono “furibonde”; ogni felicità è una caricatura, è solo un momento, spesso risibile, prima dell’inevitabile sparizione. La visione di Guglielmo Aprile s’innesca, a tratti ferocemente, a partire della leopardiana “strage delle illusioni”; se anche la nostra pelle è “finta” e “le nostre vene sono di carta”, le nostre preghiere, ciò che noi consideriamo più sacro, sono soltanto scorie, residui di una mistificazione che ha perso ogni potenza e sopravvive a se stessa. C’è quasi, in filigrana nelle parole del poeta, una condanna della superbia tutta umana di credersi qualcosa di più di un’ombra. Siamo ridotti a essere funzionari di apparati tecnici che ci soverchiano, ci opprimono, ci umiliano. Il dolore umano si trasfigura negli oggetti quotidiani, le cose stesse paiono animate dal dolore umano. C’è in questi versi un’interdipendenza fatale fra l’uomo e ciò che egli stesso ha creato.

Così attraverso questa bella silloge, come in una lente, possiamo vedere noi stessi nella nostra insignificanza e divenire lucidamente consapevoli che la Storia umana è solo una sciarada priva di senso e che l’unica certezza è che “il cielo non esiste”. Volenti o nolenti bisogna ammetterlo: è questo il frutto amaro della modernità. L’assenza di spiragli, l’assoluta certezza di essere in un vicolo cieco, rendono questo testo un prezioso commento al nostro quotidiano naufragio di “uomini impagliati”.

Edizione esaminata e brevi note

“Il talento dell’equilibrista” – Guglielmo Aprile – Giuliano Ladolfi Editore – aprile 2018

Guglielmo Aprile è nato a Napoli nel 1978 ma vive e lavora a Verona. È autore di diverse raccolte poetiche fra le quali: ”Il dio che vaga nel tempo” (Puntoacapo Editrice), “L’assedio di Famagosta” (Lietocolle), Calypso (Oedipus). Ha realizzato studi su D’Annunzio, Luzi, Boccaccio, Marino e sulla poesia italiana del Novecento.

Atelier
Le muse inquiete
Poesia del nostro tempo

Ettore Fobo, Lankenauta, gennaio 2023