A 21 anni dalla sua prima distribuzione in Giappone arriva finalmente nelle sale italiane uno dei capolavori di Hayao Miyazaki, Il mio vicino Totoro. Uscito nello stesso anno di un altro capolavoro animato dello Studio Ghibli (il dolorosissimo Una tomba per le lucciole, dell’amico e cofondatore della casa di produzione Takahata), Totoro è l’opera che diede a Miyazaki la piena notorietà in madrepatria, forse addirittura la sua più apprezzata sia nel Sol Levante che nella sempre più larga cerchia degli innamorati del suo cinema in Occidente, tra i quali c’è anche chi adesso vi parla. Come sapranno gli appassionati, Totoro non ha mai conosciuto nemmeno una versione home video, ma è sempre stato rintracciabile attraverso i comunque ottimi file contenuti in rete, naturalmente in lingua originale e sottotitolato. Un po’ la stessa sorte di Porco Rosso, per il quale ad oggi non è ancora prevista una versione doppiata per le sale o per l’home video. Ma arriverà anche il Porco aviatore, ne siamo certi. A dirla tutta per opere di tale spessore artistico, quali sono senza dubbio quelle del maestro giapponese, il doppiaggio italiano non è così importante, perché le immagini dicono già tanto da sole, e perché la lingua originale rende più vive e vere le sequenze proposte Certo è che i bambini, che adulti non sono, hanno dovuto aspettare 20 anni abbondanti per godere di questa straordinaria opera, peraltro a loro principalmente rivolta. Rivolta ai bambini d’ogni età, per la precisione, perché Totoro è una sorta di personaggio mitologico che si manifesta in un universo onirico e metafisico talmente vicino al reale – per chi ci crede: e noi ci crediamo, senza ombra di dubbio – da poter modificare la realtà senza che nessuno se ne accorga. Nessuno o quasi, perchè ci sono i bambini in cerca di fantasmi e di mistero, coloro che guardano la vita attraverso una lente limpida e pura che restituisce una natura verde e incontaminata. Un angolo magico del Sol Levante, proprio ai margini della metropoli divenuta più claustrofobica e alienante.
Siamo nei pressi di Tokyo, negli anni Cinquanta. Le sorelline Satsuki e Mei, di 11 e 4 anni, si sono appena trasferite insieme al padre in un villaggio di campagna. L’avvicinamento dalla città alla campagna è funzionale agli spostamenti del padre presso l’ospedale in cui è ricoverata da qualche tempo la madre, afflitta da una malattia che la debilita. Il villaggio che ospita i nuovi arrivati è una sorta di luogo incantato, immerso in una natura cristallina in cui gli alberi secolari sono una suggestiva e rassicurante cornice. Satsuki e Mei capiscono subito che Matsu no Go è un posto magico, nel quale incontrare spiriti della natura accoglienti e gentili. Niente di pericoloso, insomma. Dopo aver solo sfiorato i timorosi e riservati spiritelli della fuliggine la sorella più piccola s’imbatterà in due buffi e piccoli spiriti, uno dal pelo bianco e uno dal pelo azzurro, fuoriusciti da chissà dove in cerca di ghiande. La vivace e curiosissima Mei, nel tentativo di seguire le loro tracce planerà improvvisa sul pancione dormiente di un essere gigante simile a un’orsacchiottone, una sorta di mega estensione degli spiritelli bianco e azzurro incontrati in precedenza. È Totoro, il Troll già visto dalla piccola in un libro di fiabe. La bimba si addormenta sulla pancia di Totoro e al risveglio si ritrova sola su un prato presso casa. Non è un sogno, è tutto vero e lei né è convinta, e l’unica che pare crederle è la sorella maggiore, costretta peraltro a crescere in fretta viste le reiterate assenze per malattia della madre. E infatti Totoro si manifesta solo a loro, facendole entrare nel suo mondo e aiutandole, insieme al velocissimo Gattobus (una gatto gigante a forma di autobus, che cambia fermate a seconda dei desideri del trasportato), nel momento in cui le circostanze si fanno complicate.
Una fiaba purissima, divertente e rassicurante, tanto diretta e limpida nelle sue immagini, nelle sue evocazioni e nei suoi rimandi da toccare le corde dell’emozione con garbo e potenza allo stesso tempo, insinuandosi lieve ma mettendo solide radici nello spettatore ricettivo alla poetica miyazakiana. Una storia edificante e pedagogica, ricca di fascino e fanciullesco mistero, come consueto all’artista giapponese, in cui i riferimenti al culto animista, sottotesto estetico, poetico e metafisico di altre sue celeberrime opere (una su tutte: Principessa Mononoke), sono più espliciti che mai. Espliciti ma non ingombranti o ideologici, dosati con l’immancabile cura e grazia per rafforzare gli elementi valoriali palesi, come appunto l’ecologismo, il recupero della tradizione primordiale nipponica, l’unicità della fanciullezza e l’importanza della fantasia generatrice. Totoro è una summa di questi motivi etici ed estetici, un’opera in cui le immagini si liberano con delicatezza e armonia lasciando il giusto spazio sia alle risate che alla riflessione, facendo sempre leva sulla disposizione immaginifica dello spettatore.
Non ci sono cesure narrative improvvise, il film è un’agile ed emozionante fluire di immagini che amalgamano realtà e fantasia su un piano unico, tanto da non lasciare spazio a dubbie interpretazioni sulla valenza catartica di una fiaba che procede liberamente su un piano ideale strutturato in modo profondamente razionale e realistico. Razionalità quanto mai lontana, però, dai dogmi della ragione, al contrario utilizzata da Miyazaki – qui come in altre storie da lui raccontate – per dar credibilità a un tema universale e irrinunciabile come l’indagine del percorso iniziatico legato all’infanzia, con le sue imprevedibili e fantastiche scoperte: lì dove il tempo di vita è, o dovrebbe essere, sempre una meravigliosa epifania. E sono ancora una volta i bambini, come logico, che aprono la porta su nuovi mondi, sconosciuti ed invisibili agli adulti: Totoro e il suo mondo sono l’incarnazione del soprannaturale catartico, della natura magica e occulta che guida chi la percepisce e la riconosce alla scoperta di una dimensione diversa da quella dello spazio e del tempo conosciuto, ma adiacente e dunque talmente vicina alla realtà da poterla positivamente influenzare.
Più che in altre sue opere, pur rimandanti ai simboli e le suggestioni ivi contenute, Il mio vicino Totoro si inoltra nei sentieri di un culto non dogmatico, pacifico e affascinante come quello animista (anche visivamente: si scorgono più volte piccoli santuari shintoisti rappresentanti animali), così da rafforzare un’atmosfera che si fa subito densa di candore e magia, sin dal fuggevole ingresso in scena degli spiritelli della fuliggine. Spiritelli della fuliggine ripresi, non a caso, in quel tripudio immaginifico di colori e di forme animate che è La città incantata, universalmente riconosciuto come il capolavoro supremo di Miyazaki, forse l’opera più vicina ai motivi di Totoro (la protagonista, Cichiro, è calata in un mondo fantastico di spiriti buffi dalle forme improbabili, ancorché nel film il tema della ricerca d’identità passi per vie più adulte e pericolose rispetto all’opera in questione). Due parole vanno necessariamente spese per il personaggio Totoro: uno spirito buono che rappresenterebbe una metafora della vita, che ha dimora in un albero di canfora che è considerato un simbolo di purificazione nella tradizione shintoista. La sua ingombrante e buffa figura divenne talmente famosa in Giappone che Miyazaki ne ha fatto l’immagine-logo dello Studio Ghibli. Oggi è nell’immaginario dei bambini di tutto il mondo, grazie alla diffusione delle opere di Miyazaki. E noi non possiamo che esserne felici, ringraziando l’anziano maestro anche di questo suo primordiale lampo di genio, quando il suo cinema era ancora sconosciuto ai fanciulli residenti in Occidente.
Federico Magi, settembre 2009.
Edizione esaminata e brevi note
Regia: Hayao Miyazaki. Soggetto e sceneggiatura: Hayao Miyazaki, Kubo Tsugiko. Fotografia: Mark Henley. Scenografia: Kazuo Oga. Montaggio: Takeshi Seyama. Effetti: Kaoru Tanifuji. Musica originale: Joe Hisaishi. Produzione: Tokuma Japan Communications Co. LTD., Studio Ghibli, Walt Disney Animation. Titolo originale: “Tonari No Totoro”. Origine: Giappone / Usa, 1988. Durata: 86 minuti.
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