Ecco come sdrammatizzare una visita a Buchenwald che, in linea di massima, non dev’essere propriamente uno spasso. Basta andarci con un gruppetto sguarnito e borbottante di familiari scelti possibilmente per festeggiare il centesimo compleanno di un presunto sopravvissuto che, oltre a aver raccontato la propria vita in versioni contraddittorie e fantastiche, ha pure lasciato nel mondo cinque figli avuto da donne diverse. Il “favoloso bugiardo” contenuto nel titolo del libro d’esordio della non proprio giovanissima scrittrice in lingua tedesca (ma d’origine ungherese) Susann Pásztor risponde al nome di József detto Joschi Molnár. Il suo suicidio, durante “un’assolata mattina d’autunno, nel settembre del 1959” non ha gli esiti sperati. Joschi, infatti, non muore affatto: “quello che secondo lui era il riposo eterno, in realtà non era che un altro inizio della fine, e al posto della morte comparve l’albergatore, dato che József aveva pagato solo per due ore, troppo poco per morire, e a seguirlo uno sgarbato medico di guardia“. Dopo una corposa lavanda gastrica, dunque, il mancato suicida si ritrova in ospedale al cospetto delle sue tre donne. “Piangevano tutte e tre, e ciascuna aveva buoni motivi per farlo. Dopotutto la prima aveva rischiato di perdere il marito, la seconda colui che voleva sposare, la terza l’ex marito, da cui a suo tempo si era separata a malincuore…“. Alla fine Molnár opta di rimanere con la moglie.
C’è quindi un salto di trenta anni e ci ritroviamo a seguire la voce narrante di questo romanzo, quella di Lily, brillante nipote sedicenne di Joshi, a cui dobbiamo una visione ironica e canzonatoria di tutta la vicenda. Una piccola saga familiare che si muove tra il grottesco e l’irriverente. Il progetto dei discendenti dell’ungherese Joschi ha persino qualcosa di romantico: celebrare i cento anni del loro capostipite con una piccola cerimonia, tutta da inventare, presso il campo di sterminio di Buchenwald. Perché in una delle varianti del racconto della sua vita, Molnár è stato imprigionato a Buchenwald dopo aver perso una moglie e due figli ad Auschwitz. Ed è così che Marika (la mamma di Lily), Hannah e Gabor, i tre figli viventi che Joshi ha avuto da altrettante donne, decidono di ritrovarsi a Weimar. Con loro anche Lily, ovviamente, armata di penna e taccuino per poter redigere una relazione con la quale ottenere un buon voto a scuola e fare una discreta impressione ai prof.
La commedia procede spassosamente tra dialoghi sferzanti, piccole sarcastiche riflessioni sui legami di famiglia e stravaganti abitudini personali. Lily osserva tutto con lo sguardo leggero e beffardo di un’adolescente. Sulle presunte radici ebraiche della famiglia si apre un altro piccolo mondo di fandonie che Joshi pare aver messo a punto forse semplicemente per ricevere un indennizzo alla fine della guerra. Comunque, tra una rivelazione e l’altra, si arriva, più o meno a metà del romanzo, alla fatidica visita al campo di Buchenwald. Le impressioni di Lily sono esattamente quelle che ci si aspetterebbe da una sedicenne: “Che cosa mi aspettavo? Tutto, tranne quell’infinita distesa lì dietro, quel nulla dove un tempo di doveva essere stato così tanto“. Un piazzale con l’asfalto sconnesso, un campo di rettangoli di ghiaia, una striscia di bosco in lontananza, un cancello con la scritta “Judem das seine” (A ciascuno il suo), edifici bassi e un gruppo di anziani turisti olandesi. Nessun pensiero profondo, nessuno sgomento particolare, nessuna emozione travolgente. Marika ed Hannah si dirigono da una parte, Garbor dall’altra e Lily, dopo aver piantato nelle orecchie il suo iPod con la musica di Arvo Pärt, si muove nel campo da sola.
I cento anni di József Molnár vengono celebrati con una piccola ma significativa cerimonia illegale notturna ideata dalla nipote Lily. Ben dieci simboliche lanterne orientali vengono accese e fatte volare in ricordo di Joshi e di tutti i defunti della famiglia. Un piccolo show che, seppur suggestivo e a suo modo toccante, non può non attirare l’attenzione dei custodi del campo e, di rimando, gli agenti del luogo che conducono i nostri quattro eroi direttamente nella stazione di polizia di Weimar.
Evidentemente Susann Pásztor ha scritto un libricino divertente e godibile che si muove tra la tragedia e il farsesco. Il passato sfugge facilmente e diviene ancor più impalpabile se è lasciato ai racconti di un fanfarone patentato. Marika, Hannah, Gabor e Lily vogliono ricordare comunque quel passato e quel favoloso bugiardo da cui discendono anche per riappropriarsi della loro stessa identità ed appartenenza. La Pásztor ha saputo trovare il tono più lieve per affrontare la Shoah e i suoi morti, lo ha fatto con una nota di leggerissima frivolezza che, in ogni caso, non disturba più di tanto. I temi, seppur serissimi, sono sviluppati con estrema semplicità e l’atmosfera tragicomica non scade mai nella pura dissacrazione. Un romanzetto che si legge velocemente, con simpatia e che vedrei bene anche tra le mani degli adolescenti.
Edizione esaminata e brevi note
Susann Pásztor è nata nel 1957 a Soltau, in Sassonia, figlia di madre tedesca e padre ungherese. Ha compiuto studi artistici e pedagogici e ha lavorato per diversi anni come illustratrice di libri per bambini. Nei primi anni ’90 inizia a lavorare come giornalista, scrittrice e traduttrice. Il romanzo “Un favoloso bugiardo” è stato pubblicato in Germania nel 2010 e rappresenta il suo esordio nel mondo della letteratura col quale ottiene, nel 2012, il Premio Berthold Auerbach. Nel 2013 Susann Pásztor ha pubblicato il suo secondo romanzo intitolato “Die einen sagen Liebe, die anderen sagen nichts”, non ancora tradotto in Italia.
Susann Pásztor, “Un favoloso bugiardo“, Keller Editore, Rovereto (TN), 2012. Traduzione dal tedesco di Fabio Cremonesi. Titolo originale: “Ein fabelhafet Lügner” (2010).
Pagine Internet su Susann Pásztor: Wikipedia (de) / Ungarische-literatur.eu/ Kiepenheuer & Witsch (Intervista)
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