Ernaux Annie

Il posto

Pubblicato il: 14 Aprile 2014

Certi libri ti capitano tra le mani. E non sai neppure come. Cerchi solo una nuova scrittrice a cui affidare gli occhi e la mente per un po’. E vuoi proprio una scrittrice perché pensi che dedicarsi alla letteratura delle donne possa aprire strade fin troppo trascurate. O forse dietro a questa ricerca recente e personale c’è una sorta di empatia di genere. Chissà. In ogni caso il libro della Ernaux mi capita tra le mani. Non la conosco. Non ne ho mai sentito parlare. Leggo le prime due pagine de “Il posto” in pochi minuti. Sono in piedi in mezzo ad altri libri e ad altra gente. È solo l’inizio di una storia ma vengo immediatamente folgorata da come la scrittrice maneggia le parole. È lineare, sferzante, istantanea, secca, concisa. Non spreca una sillaba, non impiega nulla di più di quanto sia necessario. Ed è esattamente la mia idea di come si dovrebbe scrivere. Ormai è chiaro: devo leggere “Il posto” di Annie Ernaux.

L’iniziale folgorazione trova compimento. La lettura del libro non fa che ribadire l’impressione iniziale. Un’ottima impressione. E non posso che uscirne pienamente soddisfatta. Annie Ernaux entra nella mia vita e non ne uscirà più. Per mia fortuna, s’intende. “Il posto” è un libro uscito in Francia nel 1983. Con discreto ritardo è giunto anche in Italia: tradotto da Lorenzo Flabbi e pubblicato da L’Orma Editore nel 2014. Meglio tardi che mai, mi dico.

La voce narrante, che poi non è altro che la voce della Ernaux, ci accompagna lungo tutta la storia. Ed è la sua storia. Quella di una ragazza che supera l’esame pratico del concorso per il Capes (Certificat d’aptitude au professorat de l’enseignement du secon degré) e diviene, così, insegnante in un liceo di Lione. “La sera ho scritto ai miei genitori che presto sarei diventata professoressa “di ruolo”. Mi madre mi ha risposto che erano molto contenti per me“. Esattamente due mesi dopo tale episodio, una domenica, di primo pomeriggio, il padre di Annie Ernaux muore. C’è la visita dei parenti, c’è la vestizione del morto, c’è la cerimonia funebre e la tumulazione. La figlia ricorda frammenti di quel giorno. Non tutto. In seguito vorrebbe trasformare suo padre in un personaggio da romanzo, ma non funziona. “Da poco so che il romanzo è impossibile. Per riferire di una vita sottomessa alla necessità non ho il diritto di prendere il partito dell’arte, né di provare a far qualcosa di “appassionante” o “commovente”. Metterò assieme le parole, i gesti, i gusti di mio padre, i fatti di rilievo della sua vita, tutti i segni possibili di un’esistenza che ho condiviso anch’io. Nessuna poesia del ricordo, nessuna gongolante derisione. La scrittura piatta mi viene naturale, la stessa che utilizzavo un tempo scrivendo ai miei per dare notizie essenziali“.

Una figlia scrittrice inizia così a narrare la vita di suo padre e, nel contempo, sembra recuperare pezzi della sua stessa vita e delle sue radici. Parla di un ragazzo di fattoria che munge le vacche, striglia i cavalli e dorme su un pagliericcio e che è restato tale fino a quando non è andato a fare il militare. In quel momento il giovane è “entrato nel mondo” e, al ritorno, ha scelto di abbandonare la terra per entrare in una fabbrica di corde. “Dopo la sirena era libero e non si sentiva più addosso l’odore delle stalle. Uscito dal primo cerchio“. Ed è nella fabbrica che suo padre conosce sua madre. Si sposano ed hanno una figlia. Poi la moglie ha un’idea: aprire un negozio. Arriva il bar-drogheria che però si limita a sopravvivere perché gli introiti non sono soddisfacenti. “Mio padre è dovuto andare a lavorare in un cantiere edile della bassa Senna. Lavorava nell’acqua con degli stivaloni. Durante la giornata mia madre teneva aperta l’attività da sola. Metà commerciante, metà operaio, appartenente a entrambi i fronti allo stesso tempo, destinato dunque alla solitudine e alla diffidenza“.

La vita dignitosa e normale di una famiglia dignitosa e normale. Uno spaccato esistenziale che somiglia a tanti altri, tutto sommato. Genitori che cercano di avere “tutto ciò che serve“, di non far mancare nulla alla propria figlia, neppure gli studi di Lettere Moderne. Una laurea, insomma. La volontà, apparentemente modesta, di un padre che vuole garantire alla figlia un’esistenza migliore della propria. “Studiare, una sofferenza obbligatoria per farsi una posizione e non sposare un operaio“. Studiare non è un lavoro e neppure scrivere libri lo è per gli occhi di un uomo che ha passato la vita in fabbrica, dietro il bancone di un bar-drogheria o in un cantiere edile. Un’evoluzione culturale e sociale che porta Annie a frequentare la piccola borghesia del paese, impercettibile ma rivoluzionario “passaggio a un altro mondo” di cui suo padre è stato inconsapevolmente artefice. Un passaggio che rappresenta, nel contempo, separazione da un mondo originario, paterno e familiare, di vedere e percepire le cose.

La Ernaux ritrova suo padre pagina dopo pagina. Le abitudini, i sorrisi, il linguaggio, i movimenti, la voce, la figura, il carattere. Si sforza di riconquistare dettagli che sembravano perduti ma di cui, invece, mantiene ogni traccia. “Mi sono piegata al volere del mondo in cui vivo, un mondo che si sforza di far dimenticare i ricordi di quello che sta più in basso come se fosse qualcosa di cattivo gusto“. Nel mondo più basso, infatti, c’è il terreno dal quale la scrittrice ha tratto nutrimento e sul quale ha potuto contare per costruire se stessa. “Il posto” diviene così omaggio ad un padre: pagine di riconoscenza nei confronti di un uomo a cui si deve non solo la vita ma anche la propria essenza. Una gratitudine che si percepisce con un certo ritardo, solitamente, e che, prima di manifestarsi in tutta la sua purezza e in tutta la sua sincerità, deve superare diverse incompatibilità, diffidenze, tradimenti e l’inevitabile età adulta. Una gratitudine che sembra sospinta da un insanabile senso di colpa e che assume le forma di un risarcimento sentimentale commovente ma dolorosamente tardivo.

Edizione esaminata e brevi note

Annie Ernaux è nata nel 1940 a Lillebonne. Si laurea in Lettere Moderne presso l’Università di Rouen e, poco più tardi, diviene insegnante di lettere in un liceo. Il suo romanzo d’esordio risale al 1974 e si intitola “Gli armadi vuoti”. Con il libro autobiografico “Il posto”, pubblicato nel 1983, ottiene il prestigioso premio Renaudot. E’ una delle scrittrici più amate ed apprezzate del panorama culturale francese, letta, studiata e tradotta in tutto il mondo. I suoi libri in traduzione italiana: “Passione semplice”, “Diario delle periferia”, “Non sono più uscita dalla mia notte”, “L’onta”, “Gli anni“. A queste si uniscono altre opere: “Une femme”, “L’événement”, “La vie extérieure”, “Se perdre”, “L’occupation”, “L’autre fille”, “L’atelier noir”, “Retour à Yvetot”. L’editore Gallimard di Parigi, nel 2011, ha raccolto i migliori scritti della Ernaux in un volume unico della prestigiosa collana “Quarto”.

Annie Ernaux, “Il posto“, L’Orma Editore, Roma, 2014. Traduzione di Lorenzo Flabbi. Titolo originale “La place“, Éditions Gallimard, Paris, 1983.

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