Prima ho visto il film, “Come pietra paziente“, poi ho letto il libro, “Pietra di pazienza”. Solitamente capita il contrario, ma tant’è. L’autore del libro, Atiq Rahimi, è anche sceneggiatore (assieme a Jean-Claude Carrière) e regista del film. Rahimi è afgano e “Pietra di pazienza” è il suo primo romanzo in lingua francese. Un libro grazie al quale Rahimi ha conquistato il premio Goncourt nel 2008 e ha venduto tantissimo, soprattutto in Francia. In effetti “Pietra di pazienza” è un buon libro, scritto in maniera raffinata e brillante. Rahimi ha scelto il francese perché, come spiega, “scrivere in francese è per me un modo di sfuggire all’autocensura. La lingua materna, come vuole il suo nome, è una lingua sacra, difficile da trasgredire, perché è attraverso di essa che si conosce il mondo, i suoi confini, i suoi tabù…“.
La vicenda di “Pietra di pazienza” si svolge in una sola stanza. L’autore ha puntato le luci su quell’unica camera da letto ed i personaggi entrano ed escono da questa scena proprio come se si trovassero sul palcoscenico di un teatro. Poche righe per descrivere l’ambiente, per farcelo immaginare, visualizzare. Una piccola stanza rettangolare e spoglia. Non c’è nulla tranne una tenda con motivi di uccelli migratori, un piccolo khanjar (coltello) e la foto di un uomo coi baffi e i capelli ricci. Ai piedi del muro c’è l’uomo della foto. E’ più vecchio, è molto magro ed è disteso su un materasso. Guarda fisso nel vuoto e da un ago infilato nel braccio riceve del liquido trasparente. Accanto a lui c’è una donna con una mano poggiata sul cuore. Sta pregando. Deve recitare uno dei 99 nomi di Allah per 99 volte. “Mi avevano detto che dopo due settimane avresti potuto muoverti, fare qualche cenno… Ma siamo ormai alla terza settimana… o quasi. Ancora niente!“.
Ed è così che inizia il monologo-confessione della donna. Il marito è un guerrigliero rimasto vittima di uno stupido incidente: una pallottola gli è rimasta conficcata nel cervello e lo ha trasformato in un vegetale. Lei deve assisterlo. Glielo impone il suo dovere di moglie, di madre, di afgana. È stata abbandonata dai familiari e non può che sperare che suo marito si svegli. Ma l’uomo respira e tace. Non si muove, non risponde, non reagisce. Un’immobilità e un silenzio che spingono la donna a parlare col suo uomo come mai, prima d’allora, ha mai potuto fare o sperare di fare. Lui non può rimproverarla, non può zittirla, non può picchiarla. “Non mi hai mai ascoltata, non mi sei mai stato a sentire! Non ci siamo mai parlati di tutto questo! Sono più di dieci anni che siamo sposati, ma abbiamo vissuto insieme solo due o tre anni. No?“.
L’uomo diviene, agli occhi di sua moglie, “Sang-e sabur”, pietra di pazienza. Una pietra magica che, secondo l’antica tradizione, è in grado di assorbire tutta l’infelicità, le frustrazioni, il dolore di chi le parla fino al momento in cui non va in frantumi. Così la donna racconta al suo uomo molti episodi della sua vita. Ricordi e sensazioni che non ha mai condiviso con nessuno, segreti che non è mai stata capace di confessare ad anima viva. Il suo uomo è divenuto la sua pietra di pazienza. Ora può parlargli liberamente: “Siamo sposati da dieci anni. Dieci anni! E soltanto da tre settimane condivido finalmente qualcosa con te“. La moglie può mettersi a nudo, può rivelare a suo marito cosa pensa, cosa sente, cosa percepisce. Può svelargli i suoi lati più spudorati ed intimi, non ha timore né vergogna. Il suo essere donna riesce finalmente a deflagrare impattando contro una serie di imposizioni culturali e religiose che l’hanno sempre costretta a tacere e dissimulare.
I pochi personaggi di “Pietra di pazienza” rimangono incastrati negli eventi. E noi lettori siamo fermi esattamente come loro. Non avvertiamo null’altro che i rari movimenti e le parole. Fissità. Una stasi che diviene il cuore pulsante di questo libro. Un tumulto c’è ma è puramente verbale, concettuale. La donna probabilmente immagina che il suo uomo non si sveglierà mai. Ma il suo monologo sottintende la possibilità e il rischio di essere ascoltata. In fondo, forse, lei desidera che il suo uomo, rimasto per dieci lunghi anni accanto a lei indifferente ed ottuso, ascolti tutto. Vuole forse che lui la conosca e, per la prima volta, la capisca. La parola si trasforma così in uno strumento di affermazione di sé, nel mezzo per raggiungere quella libertà di cui, altrimenti e normalmente, nessuna donna in Afghanistan potrebbe mai godere. Per queste ragione l’invenzione di Atiq Rahimi è estremamente interessante, sia dal punto di vista letterario, sia dal punto di vista umano, sia dal punto di vista culturale.
Edizione esaminata e brevi note
Atiq Rahimi, “Pietra di pazienza“, Einaudi, Torino, 2011. Traduzione di Yasmina Melaouah. Titolo originale: “Syngué sabur. Pierre de patience” (2008).
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